La 55ma Esposizione d’arte ha chiuso domenica scorsa con un record di 475.000 visitatori. Il curatore Massimiliano Gioni ha fatto un lavoro egregio. Non si inalberi chi invoca sempre messaggi forti, opere significative, grandi nomi, arti-star. Quelle cose – e anche quelle polemiche – lasciamole ai padiglioni nazionali, incluso quello italiano: poco emozionante, quanto poco lo sono le logiche e le prospettive del paese di cui è espressione.
Anzi, anche se ce n’erano di ben curati e di ben allestiti, lasciamoli proprio perdere i padiglioni nazionali, perché mai come stavolta la vera casa della Biennale sono stati il suo padiglione centrale e il suo gemello all’Arsenale, trasformati in Palazzo Enciclopedico. Peccato per chi sparava il solito messaggino dissacrante, e magari poi ha annoiato. E forse questa volta Alfredo Jaar, che nel padiglione cileno – dove si annunciava con toni roboanti “l’assurdità storica dell’ordine implicito nei Giardini” – faceva affondare e riaffondare nella laguna il plastico dei giardini pubblici, stavolta ha fatto cilecca.
Forse perché la diversa messa a fuoco ha spiazzato. Nel momento in cui sembrava che tutte le immagini fossero digitali, dove ci avevano spiegato che ormai solo sullo schermo, virtualmente, si ritaglia, si copia, si scrive, si inventa, si colora, si crea.. quest’anno gli unici transistor che idealmente hanno vinto, sono quelli manovrati da mani, da menti, da spiriti geniali e appassionati. È stato questo il limite invalicabile, tracciato all’ingresso dell’Arsenale dal capolavoro video di Camille Henrot, “Grosse Fatigue”: una lode al mondo in dieci minuti, perché l’umanità ha i mezzi per cantarla anche così, però dev’essere originale e … elegante.
I veri protagonisti a Venezia, in questo Anno del Serpente, sono stati la carta, il legno, la pietra, gli anelli, le conchiglie, la terra, migliaia di oggetti raccolti, scelti, esposti, etichettati, spiegati, copiati, inventati, cercati. Sì è vero, qualche fesseria ha superato il setaccio, succede. Qualcuno mancava, e succede anche quello. Ma chi ha saputo vedere ha scoperto e ammirato l’Arte viva: quella di chi la nasconde quasi come una malattia, oppure di chi la fa sua malgrado tutto, come i meravigliosi ciechi nell’opera video di Zmijewski. E’ accumulata e incollata nei libroni impossibili di Shinro Ohtake, ossessiva e quotidiana in pagine dopo pagine dei taccuini di Suarez Londono.
E noi siamo a nostro agio in quest’Arte veramente umana. Come eravamo a nostro agio, nella stanza più buia del Palazzo, ritrovando al loro posto le immagini create da Aleister Crowley, le due steli dorate di James Lee Byars, e ripercorrendo in quelle storie il cammino geografico seguito anche da me tra Londra, Tokyo, Il Cairo. Siamo a nostro agio perché in questi corridoi enciclopedici siamo a una rinfrescante distanza dal glitz e dai party delle gallerie pop. Come immaginiamo che ne rimanga lontano Shinichi Sawada, autistico, mentre modella, punta dopo punta i suoi mostri spinosi di ceramica. Pare che adesso Sawada, a trentun anni, abbia lentamente iniziato a parlare.
Perché questa è l’Arte, sono le piante immaginarie con cui Anna Zemankova supera la depressione, con cui Sergei Zarva supera la persecuzione. Quindi salutiamola, l’Arte che è anche invenzione di palazzi inesistenti, o delle creature impossibili di Stefano Gnoli. Non è Arte solo quella che si crea ma anche quella che si trova, che essa si nasconda nei disegni quasi infantili che il collezionista Bernetzik cerca in Melanesia, o nel taglio delle iridescenti pietre di Roger Caillois.
Insomma, la signora cinese Guo Fengji, per quarant’anni tecnico in una fabbrica di gomma, è immobilizzata dall’artrite ma si libera con la carta e con l’inchiostro, e approda al molo dei Giardini. Basta, siamo lontani dalle feste scintillanti, dal mercato, dalle art fairs, dalle balle, da quella falsità che indigna le Muse. Ecco il sorriso affaticato dell’Arte in cui è così piacevole identificarsi, e vederla celebrata a Venezia ci riempie di speranza e di ispirazione.