Felice lo scrittore che ha un paese da raccontare, scriveva il grande Francis Scott Fitzgerrald, ed il paese-Sicilia ne ha cosparsa tanta di questa felicità, considerando il fior di scrittori che l’hanno raccontata e la raccontano, ciascuno a suo modo, dall’ottica della propria cultura e della propria sensibilità, ma sempre come a suggellarne quel primato che, attraverso loro, viene riconosciuto alla letteratura siciliana del “900.
Ricordo questo mentre mi accingo ad offrire una testimonianza al recente libro di Pietrangelo Buttafuoco, “Il dolore pazzo dell’Amore” romanzo (Bompiani) che offre una galleria di persone e fatti che, originandosi dalle fonti dei propri paesi (ecco il motivo della felicità) riescono a varcare i confini delle circoscritte geografie dei luoghi.
Quello di Buttafuoco è un paese di antichi privilegi culturali ed ambientali e si articola in nomi che vivificano valli e montagne degli Erei che, dal nome, dovrebbero costituire, al centro dell’isola, parte assai cupa e tenebrosa, mentre invece non è.
Potremmo soffermarci sulla vitalità dei tanti “bei” paesi incontrati fra le “città del mondo” di Elio Vittorini, fra tante pagine di Nino Savarese, sicuramente tra i “mimi” di Francesco Lanza verso i quali diversi personaggi di Buttafuoco hanno un debito sicuro.
Diciamo di Leonforte, di Nicosia, di Agira e di Raddusa, di Assoro, Nissoria, Calascibetta, Regalbuto e così via, ma senza trascurare la rocca di Cerere sul dente proteso di Enna, dal cui mito scaturiscono leggende di fiorenti stagioni e di morte, come vuole il ricordo di Plutone che vi rapì Proserpina. E la morte, in questo libro, occupa uno dei ruoli principali, il senso della morte così presente e vigile nella natura dell’uomo siciliano.
Pietrangelo Buttafuoco va avanti per memorie : memorie paesane ad ognuna delle quali corrisponde un nome, ed ogni nome ha una maschera ed ogni maschera conferma il patrimonio di un piccolo-grande mondo dove tutto converge, tutto si assimila e diventa storia di un’ antropologia dura a lasciarsi superare dalle invadenze della modernità, e che trova nell’ironia la chiave della propria resistenza (per intenderci, non l’ironia pirandelliana al limite della follia, ma quella consolatrice di chi non si dispera). In tal senso il romanzo di Buttafuoco è anche sapienziale, come sarebbe piaciuto, oltre che ai comuni mortali-lettori di giornata, a specialisti dell’antropologia siciliana come Serafino Amabile Guastella, Giuseppe Pitré, D’Avolio, Cocchiara, tutti studiosi, fra l’altro, di fatterelli ed ataviche credenze popolari. E Buttafuoco, appunto, vincola la ricomposizione delle sue piccole storie di “paese” alle credenze che tutto includono e nulla escludono : credere bisogna (a tutto), ai santi e ai diavoli, ai vescovi e ai barbieri, alle ninfe e a Giufà, ai musicanti e ai racconti dei librai, ai morti e a chi sta per morire, ai fiori selvatici, ma soprattutto al destino, all’amore e al dolore : fra coscienza e stupore!
Ma non fermiamoci qui, Buttafuoco ha qualcosa, e molto, in più : la dimensione metafisica cui riconduce ogni sua storia di “paese” facendola assurgere a metafora esistenziale di realtà proposte per ricomporre la sintesi di un mondo attraversato dall’aristocrazia di un gotha letterario e filosofico, al quale l’autore si rivolge proprio per imprimere alle sue “piccole” storie il crisma dell’ufficialità universale. Dal particolare emerge la realtà di un mondo, grande paese, fatto anche di letteratura e di pensiero.
Si capovolge così il criterio classico del più che contiene il meno, perché qui è il meno, come dimostrato, a contenere il più. Gli intermezzi in corsivo aiutano a capire.
Libro originale questo di Pietrangelo, con un Sicilia che mette le ali e si libra in una dimensione piuttosto aerea, spesso surreale, pur all’interno di pagine autenticamente siciliane; che se romanzo deve essere lo è per la fantasia che lo inventa e lo propone, al limite della lucida follia che investe lo scrittore felice di raccontare il suo paese.
* da La Sicilia