Andrea Di Consoli con La collera (Rizzoli, pp. 231, € 18,50) ha reso giustizia a un combattente. E con lui a tutta una storia che, nell’epoca della vittoria dell’aggiornamento frenetico modello “app” sull’elaborazione dei fatti, rischiava l’oblio. Un po’ meno ha reso giustizia al Sud, che con la giustizia – fatalmente – ha una partita aperta. Ma del resto che cos’è la collera se non un istinto che si rivolge verso l’accidia o l’ingiustizia? Parlare del Sud allora non può esimerci dal chiederci se l’accidia e l’ingiustizia e l’approssimazione abbiano macchiato per sempre la sua identità. Se in qualche modo abbia ancora senso parlare di un’identità del Sud nel momento in cui questo ha smarrito, per ragioni storiche ma anche endemiche, la grandezza. Per diventare, tutt’al più, luogo del “buen retiro” stagionale di emigrati laureati in Scienze della comunicazione o grande “outlet” commerciale della periferia d’Europa.
Non è stato un espediente narrativo quello di incarnare questa collera nel corpo pesante di un operaio fascista, come ha fatto Di Consoli. Solo chi non conosce la tradizione proletaria e popolare del neofascismo meridionale può pensare che quello utilizzato dall’autore sia un ossimoro. Certo, si tratta di un fascismo tutto esistenziale, prepolitico, quello del protagonista. Un moto che rappresenta, anche qui, una terza via rispetto al contesto in cui si trova ad agire, negli anni ’70, il protagonista: né la rassegnazione tipica del meridione democristiano e né il dualismo tra la sinistra pauperista, quindi comunista, e quella rampante e consociativa, quindi socialista. Un moto che rappresenta una ricerca individualista, a tratti disperata, di un proprio posto nel mondo, nella storia. «Da contadino a filosofo», non a caso urla il nostro protagonista nella sua scoperta del Nord. Un personaggio dai tratti “fantiani” è, appunto, Pasquale Benassìa. Sia per il carattere burrascoso, quanto per la provenienza sociale e il tentativo di ascesa che non si risolve nella conquista intesa come accumulo capitalista, ma nell’accresciuta consapevolezza di sé che deriva proprio dalla conquista, in quell’«ergersi a pontefice della propria leggenda personale». E complesso infine, come nei racconti di Fante, è anche il rapporto con il padre, con la tradizione rurale, con la morte.
Da queste premesse parte la conquista del Nord. La ricerca di una modernità verso una terra che viene considerata una sorta di grande laboratorio di costume e civiltà che in realtà è «una confusa utopia nella testa di un furioso ragazzo calabrese». Il Nord affascina il nostro perché è il luogo della monarchia tanto presente nel suo immaginario. Perché, possiamo aggiungere, ha dato i natali al fascismo. E anche perché è terra di quel pensiero negativo che appassiona le nottate di lettura di Pasquale. Ciò che trova però non è la Milano dei “diciannovisti” né la wagneriana Germania. È – passata la breve infatuazione – solo una Torino capitalista e laboriosa. Di fatto una “grande città meridionale” dove l’integrazione tra la massa di disperati del Sud e la borghesia piemontese non troverà mai sintesi. Tant’è che, da operaio della Fiat, dopo l’iniziazione nel circolo della piccola borghesia che si candida a divenire post-proletaria, il nostro eroe troverà la noia, che è la vera morte dell’anima. Gli mancherà, in senso pagano, il sole.
Il Sud ritorna, allora, come ritorna giù un piede incastrato a un’ancora. La trappola, come nelle migliori tragedie, è un’esca dalle curve gentili, dall’aria svampita. Quasi una di quelle streghe che animano e scuotono i sogni giovanili dei personaggi di un altro scrittore “dal” Mezzogiorno come Mario Desiati. E l’incantesimo – che qui prende le sembianze della fatwa della mafia – dimostra la vera condanna di molti meridionali emigrati: in fondo non si va da nessuna parte. Il ritorno, allora, può diventare o, come nelle storie di Brancati, fuga dalla storia e rientro nella placenta del grembo caldo di una madre egoista come è la Sicilia. Oppure, come in questo caso, crollo sociale, sconfitta a tutto campo: perché la mafia è l’innesco di tutti i vizi di un Meridione arcaico e ripiegato su se stesso. Il risultato, nella personalissima vicenda di un eroe senza più gli dei al suo fianco, è il disadattamento, l’abbandono di sé.
E per gli altri? Potremmo dire che questo disadattamento è causato dalla “mafia” fatta sistema: un ascensore sociale che si è bloccato, che non produce più ricambio. Un percorso interrotto proprio dall’ingiustizia nata in quel contesto politico di presunto benessere nel quale la classe dirigente contro cui lottava Pasquale ha costruito la propria fortuna. Il problema, insomma, è capire che cos’è oggi il Sud. Perché Pasquale Benassìa ha combattuto e perso la sua guerra privata contro l’Italia della prima Repubblica. Adesso è questo il punto da cui partire: la consapevolezza che l’abbandono del Sud ai sostenitori della retorica di un Meridione come una Terra di mezzo antimoderna, è solo morte. Perché il Sud che hanno in testa, inevitabilmente, ha le sembianze di un villaggio vacanze.
* dal Secolo d’Italia