BARI – «Nessuno scontro di civiltà è all’orizzonte. Cosa sarebbe l’Europa senza l’influenza orientale?». Le distanze tra i popoli del Mediterraneo in una prospettiva di pace e prosperità si riducono soprattutto con la forza della cultura e con raffinate ricostruzioni storiche come quella curata da Franco Cardini, ordinario di Storia medievale dell’università di Firenze, nel monumentale saggio Il turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683 edito dalla barese Laterza.
Professor Cardini, quando inizia la sua ricerca sull’assedio ottomano della capitale asburgica?
«All’inizio degli anni Settanta. Ero a Vienna per un convegno di studi internazionali, agli albori della carriera accademica. Durante un caffè con il mio maestro Ernesto Sestan e con lo studioso austriaco Adam Wandruska discutemmo a lungo dell’assedio del 1529 e di quello del 1683, di cui tratto nel mio libro. Sestan mi disse: “Prima o poi scriverai un libro su questo argomento”. Quarant’anni dopo l’ho fatto».
Quali sono le ragioni culturali che rendono attuale questo studio?
«Negli ultimi vent’anni in Europa è cresciuto un sentimento di grande diffidenza nei confronti dell’Islam. Per questo ho scritto all’inizio degli anni Novanta Noi e l’Islam. Un incontro possibile? Dopo l’11 settembre pubblicai La paura e l’arroganza e Astrea e i Titani. Il clima, intanto, è diventato ancora più intollerante e ho ritenuto che Il turco a Vienna potesse essere un contributo da studioso per inquadrare storicamente in maniera meno propagandistica i rapporti con gli altri popoli del Mediterraneo. Nel 2005 l’ho proposto a Laterza: in origine doveva essere un racconto all’inglese della battaglia, ma sarebbe stato un ritratto parziale, privo della complessità del contesto europeo del tempo. Allora è diventato un ampio volume con la storia della diplomazia europea e mediterranea. Per portarlo a termine ho viaggiato tra Vienna e Istanbul, per visionare archivi, oltre ai testi che ho acquistato negli anni».
Quali erano gli obiettivi dell’impero ottomano alla fine del 1500?
«Saggiare alternativamente le difese europee nei Balcani e sulle coste del Mare nostrum, coinvolgendo o gli spagnoli o i veneziani».
Ci sono documenti inediti ne “Il turco a Vienna”?
«Sì, e potrei farne un altro libretto, ma non dimentichiamo che nella storia, molti atti importanti non si mettono mica per iscritto… L’aspetto più interessante riguarda però l’interpretazione di alcuni testi che, visionati da altri storici, non erano stati considerati della rilevanza che meritano. Mi riferisco alle carte della diplomazia francese, ai testi dei residenti austriaci imperiali nella capitale del regno ottomano, non ancora studiati a fondo. Poi bisognerebbe approfondire ancora la posizione del Vaticano e di Innocenzo XI. Giovanni Paolo II – a cui è dedicato il mio saggio – provò invano a farlo diventare santo, salvo abbandonare l’idea per il ruolo svolto dallo stesso Benedetto Odescalchi a favore dei protestanti di Inghilterra».
L’assedio turco respinto a Vienna viene ricordato come un successo della cristianità contro la mezzaluna.
«E’ un revival frettoloso. Della vittoria di Vienna si parlò al tempo in tutta Europa. Esultarono Italia e Spagna, legate agli Asburgo. Non gli inglesi: protestanti e antipapisti, per loro il turbante turco era meglio della tiara pontificia; e con gli ottomani avevano una forte sintonia commerciale. Da qui si arrivò poi alla pace di Carlowitz, che ridimensionò la potenza del Sultano».
Eppure c’è una vulgata storiografica che legge quegli avvenimenti come l’inizio di uno scontro di civiltà.
«La vittoria degli Asburgo nel 1683 fu celebrata dallo Scià di Persia, che era musulmano… Non c’è stato nessun conflitto religioso. Queste lacune nella memoria hanno generato ulteriori debolezze».
A cosa si riferisce?
«Eurolandia non sta reggendo la crisi economica. Se fossero stati seminati sentimenti di autentico patriottismo europeo, legato alla storia e alla cultura, la compattezza dei popoli del nostro continente sarebbe stata ben diversa. L’idea della lotta della croce contro la mezzaluna ha surrogato una identità che avrebbe dovuto avere ben altre radici».
La sua opera può essere utile per rafforzare una prospettiva di armonia tra i popoli del Mediterraneo?
«Le genti del Mediterraneo si assomigliano: italiani e spagnoli hanno più elementi in comune con egiziani o turchi che con gli scandinavi. Possono esserci differenze linguistiche, ma commercio, gastronomia, valori morali e culture hanno unito da sempre le sponde del Mare nostrum. Le tre religioni abramitiche si somigliano. Basterebbe riflettere sulla “gelosia mediterranea”, inspiegabile per un europeo del Nord. E di questo bisogna tenere conto, invece di incentivare pericolose conflittualità religiose. Senza gli arabi, del resto, non sarebbe nata la modernità europea, favorita dalla circolazione culturale ed economica nel Mediterraneo. Se di argomenti così delicati a Porta a Porta invitiamo a parlare il leghista Calderoli ed esperti militari, l’opinione pubblica risulterà intossicata. L’Occidente non può non definirsi se non in rapporto e assimilazione con l’Oriente. Cosa sarebbe l’Europa moderna senza la moda e l’architettura con le influenze orientali, senza la pittura di Eugène Delacroix…»