Il crepuscolo dei filosofi fu il primo libro pubblicato da Giovanni Papini nel 1906 e, senza dubbio, della sua prolifica produzione resta uno dei libri migliori, insieme ad alcune famose stroncature (come quella su Croce) e ad alcuni pensosi racconti (come L’astronomo). Ed è un vero peccato che questo agile volumetto, magmatico, stimolante e divertente, in cui c’è tutto Papini con i suoi pregi e i suoi difetti, non sia stato ristampato dopo l’edizione di Vallecchi del 1953 e sia stato, per dirla con Borges, “immeritatamente dimenticato”. Tanto più che nel panorama della storia della filosofia questo modo piuttosto personale di fare filosofia, rispetto al quale alcuni accademici storcono il muso, non ha trovato in Italia veri e propri continuatori, fatta eccezione, in qualche misura, per Luciano De Crescenzo con la sua Storia della filosofia greca. Nel mondo anglosassone, invece, c’è una diversa tradizione, in cui non si disdegna l’accessibilità e l’arguzia e perfino l’umorismo, come nella celebre Storia della filosofia occidentale di Bertrand Russell o come, per venire ad oggi, in Platone e l’ornitorinco di Thomas Cathcart e Daniel Klein.
Nel volume Papini esamina criticamente sei filosofi, a ciascuno dei quali dedica un intero capitolo: Kant, Hegel, Schopenhauer, Comte, Spencer e Nietzsche. Chiude il libro un capitolo “Licenzio la filosofia”, eliminato, non a torto nella 2^ edizione del 1914, ma riproposto nelle successive, in cui l’autore sembra prendere le distanze dalla filosofia, lanciandosi però in un vorticoso e gratuito superomismo, che può essere considerato l’anticamera della conversione o della follia.
Nei suoi ritratti filosofici Papini muove da una osservazione di Nietzsche, secondo cui ogni filosofia non è altro che una confessione del suo autore. Influenze familiari, sociali, il temperamento, i sentimenti sono presenti, benché impliciti e nascosti, in ogni filosofo: “la filosofia non è qualcosa di indipendente dall’uomo tutto intero, ma è precisamente l’espressione razionale di ciò che l’uomo ha di più profondo” (p.19).
Così la filosofia di Kant è riconducibile al fatto che egli era un onesto borghese, che la sua vita fu mediocre, meschina, ristretta: “tutto gli mancò per farne un uomo interessante: perfino le persecuzioni e le avventure coniugali. Dalle prime si liberò col silenzio, dalle seconde col celibato.”(p.21). Kant voleva salvare la morale dal relativismo e la scienza e la metafisica dallo scetticismo, di qui l’imperativo categorico, l’a priori, il noumeno. Gustosa e pregevole è la critica di Papini all’imperativo categorico di Kant: “la preoccupazione scientifica di Kant esigeva, per ottenere l’universale, il postulato dell’eguaglianza degli uomini. L’imperativo per essere razionale, deve adattarsi a tutti … Ora questo principio la ragione non lo dà, né può darlo, anzi è forzata a riconoscere il contrario. Osservando gli uomini essa ne scopre le innumerevoli e profonde diversità, date dal temperamento, dall’età, dalla razza, dal luogo, dal tempo, dalla cultura. Essa è costretta ad ammettere che gli uomini sono simili in quello che hanno di più basso, di più comune, di meno personale, cioè nelle funzioni animali. Ma anche in queste sono simili in quanto se ne fanno dei concetti, cioè in quanto ci si stacca dal reale. Ad esempio tanto un villano che il Petrarca sono simili nel fatto di avere dei bisogni sessuali, ma si somigliano soltanto rispetto al fatto erotico elementare. Se scendiamo al reale vediamo che il villano non cerca che d’accoppiarsi con una villana mentre messer Francesco va in cerca di gentildonne e oltre che accoppiarsi scrive sonetti e canzoni. Ogni uomo è qualcosa di diverso, di nuovo, di ineffabile, di assolutamente personale e l’eguaglianza umana non è che un’illusione intellettualistica generata da bisogni sentimentali” (pp.31-2).
Lo stesso procedimento vale naturalmente per Hegel: “C’è un Hegel borghese e un Hegel poeta. Un professore filisteo e un filosofo romantico. Non è come Kant l’uomo dell’unità, ma l’uomo dell’antitesi, della contraddizione. In Kant c’era un borghese e nient’altro, in Hegel c’è un borghese, ma c’è anche un romantico.“(p.62). Ed è chiaro che “da un romantico foderato di borghese non poteva uscire che una filosofia contraddittoria, agitata, preoccupata”(p.67).
La filosofia di Spencer è invece l’opera di un ingegnere disoccupato, i suoi caratteri sono semplicismo e praticità, il suo gusto per gli accordi e l’ordine e il suo orrore per i contrasti spiegano l’agnosticismo, l’a priori ereditario, l’evoluzione, il liberalismo.
Ma veniamo a Nietzsche. Per Papini, il segreto dell’autore di Così parlò Zaratustra è nella sua debolezza: l’apologia nietzschiana della forza, della salute, della gioia trova radice nella sua infermità: “non ha saputo, lui, l’ammiratore di Cesare e di Bonaparte, impadronirsi praticamente di ciò che è e allora, come quei cristiani e quegli utopisti ai quali non ha risparmiato l’odio e le invettive, si è rifugiato anche lui in ciò che non è ancora, nell’avvenire” (p.227). Si tratta, per inciso, di una tesi che è stata ripresa grosso modo da Massimo Fini nella sua biografia dedicata a Nietzsche nel 2002. Di più, l’impotenza di Nietzsche si manifesta, secondo Papini, non solo nel riconoscere l’incapacità di cambiare ciò che è, ma anche nel modo aforistico in cui si esprime: i suoi libri hanno “un’aria di mercati orientali ingombri di cenci vecchi e di drappi preziosi ammucchiati e mescolati senza ordine” (p.229).
La filosofia di Nietzsche è, in sostanza, per Papini una trasfigurazione ditirambica del naturalismo evoluzionista: “Il Nietzsche ha detto in bella poesia tedesca ciò che altri diceva in cattiva prosa francese o inglese” (p.235); “la sua teoria dominante è quella di accettare la natura. Quel che è naturale è buono, gli istinti sono sacri, i bisogni del corpo intangibili… tutto quel che c’è da fare oggi è distruggere tutto ciò che gli uomini hanno creato per modificarsi (leggi, morali, ecc.) e lasciar libera la natura” (p.228).
La filosofia nietzschiana, secondo Papini, si avvolge in contraddizioni: “tutto il sistema è incardinato sopra una contraddizione fondamentale, quella stessa che si trova nel Marx e nello Spencer, cioè la tendenza a voler accettare la natura, lo statu quo, accettando il male, il dolore, il malvagio e la tendenza che lo porta invece a cambiare le cose, a voler modificare l’uomo, a voler sopprimere in lui certi sentimenti, a volerne eccitare altri, a voler creare infine una specie nuova, una razza inedita, un nuovo tipo di vita e di civiltà” (p.254).
A proposito del cristianesimo, poi, echeggiando la tesi utilizzata da Socrate contro Callicle nel Gorgia, scrive: “rimane misteriosa la potenza che i deboli e gli schiavi avrebbero dimostrata, imponendo ai potenti, ai signori la loro morale. Imporre ai forti i valori dei deboli non è forse una delle prove più meravigliose di potenza?” (p.247). Ed infine Papini pone in rilievo l’indeterminatezza in cui Nietzsche lascia i concetti di vita e di istinto: sembrerebbe, infatti, che Nietzsche accetti la Vita in tutte le sue forme, che abbia un ideale quantitativo (cioè è buono tutto ciò che accresce la vita). Ma poi, in realtà, non accetta indifferentemente qualunque forma di vita, ma pone una gerarchia tra le varie manifestazioni vitali, il che suppone un criterio qualitativo e non quantitativo. E lo stesso vale per gli istinti, nell’uomo istinti opposti si combattono e tra questi bisogna pur scegliere.
Va evidenziato che Papini adopera, a mo’ di ariete, tanto per Nietzsche quanto per gli altri cinque filosofi esaminati, la critica di incomprensibilità o di indeterminatezza del tema fondamentale, pur nella consapevolezza che le critiche fondate sono quelle che mettono in evidenza o errori logici o deficienze di osservazione, non essendoci altrimenti che mera contrapposizione di gusti a gusti.
Sennonché, a proposito del Romanticismo, osserva: “io so quel che c’è di artificiale, di vago, di impreciso, di relativo nella parola Romanticismo. Ma appunto per questo l’adopero. Quando si tratta di grandi fenomeni, di movimenti vasti nulla è più preciso d’una parola indeterminata. Usandone una ben definita si esclude tutta la complessità e la varietà della cosa. Tutti i grandi movimenti sono confusi, contraddittori, indefiniti; volerli determinare è lo stesso che mozzarli e sfigurarli.” (p.68). Ed allora ci chiediamo: quest’ultima osservazione non è in contraddizione con il metodo da lui stesso adoperato per criticare i filosofi, non toglie forza alle accuse di indeterminatezza rivolte ai concetti base delle filosofie via via esaminate? Malgrado i limiti della sua analisi e le critiche che gli si possono rivolgere, non si può però non convenire con quanto lo stesso Papini scriveva nella prefazione, cioè che i lettori avrebbero trovato nelle sue “affrettate pagine delle gioie e dei sentieri”.