Come ci manca Manuel Vàzquez Montalbàn! Sono già passati dieci anni da quel brutto 18 ottobre del 2003, quando da Bangkok rimbalzò la notizia che lo scrittore spagnolo (anzi, catalano) era stato stroncato in aeroporto da un infarto improvviso, mentre aspettava il volo che l’avrebbe riportato nella sua amata Barcellona.
Dieci anni senza “Manolo” e senza il suo omologo Pepe Carvalho, la sua creazione letteraria ormai entrata nella storia della letteratura noir e poliziesca al pari di tanti “colleghi” che l’hanno preceduto e affiancato: il Maigret di Simenon, il Marlowe di Chandler, il Nestor Burma di Léo Malet, il Wallander di Mankell, il Charìtos di Petros Markaris, il Montale di Jean-Claude Izzo e, perché no? il commissario Montalbano di Andrea Camilleri, così chiamato proprio in omaggio allo scrittore di Barcellona.
Quando ci ha lasciato Vàsquez Montalbàn aveva solo 64 anni e di certo ancora tante altre storie da raccontare; anche se il suo ultimo romanzo – “Millennio”, pubblicato postumo in due parti per la mole della narrazione – è apparso a molti come una specie di testamento spirituale. Suo e di Pepe Carvalho, che in compagnia del fido collaboratore Biscuter compie un giro del mondo che ha tanto il sapore di un bilancio finale della nostra epoca, sancendo in un certo senso la conclusione delle ideologie e il tramonto della civiltà occidentale.
Figlio della guerra civile spagnola e dei blocchi contrapposti dalla Guerra Fredda, Vàzquez Montalbàn era a suo modo uno sconfitto, esattamente come i franchisti che ha sempre combattuto. Alla domanda di un giornalista di El Paìs, che nel ’97 gli chiedeva se non si sentisse un traditore di tutte le cause, compresa la sua, “Manolo” rispondeva con disarmante franchezza: «Sì. Se sto dalla parte degli sconfitti è perché sono cosciente delle mie debolezze segrete, della mia intrinseca fragilità. Per il resto cerco di segnare il tempo che mi resta con acrobazie sessuali giapponesi. Non ho patrie, non voto, non ho più bandiere. Preferisco mangiare e scopare pericolosamente. Quando posso».
Figlio unico di una sarta e di un militante del Partito socialista unificato della Catalogna, Manuel nasce a Barcellona nel 1939. Quando viene alla luce il padre è detenuto nelle carceri franchiste, lo conoscerà soltanto all’età di cinque anni. Più tardi anche “Manolo” militerà nello stesso partito e nel ’62 ripercorrerà l’esperienza paterna scontando tre anni di prigione per reati politici. È in cella nel carcere di Lèrida che scrive il suo primo libro, un saggio sull’informazione. Successivamente si dedica al giornalismo e alla poesia, collaborando a varie testate catalane.
Dopo aver pubblicato articoli, raccolte di poesie e altri saggi, nel 1972 debutta nel mondo della narrativa poliziesca con il romanzo “Ho ammazzato J.F. Kennedy”, nel quale compare per la prima volta il suo alter ego Pepe Carvalho, investigatore privato ex comunista misteriosamente arruolato dalla Cia. Pigro, indolente, amante delle donne e della buona cucina, il detective di Vàzquez Montalbàn ha la curiosa caratteristica di accendere il caminetto con le pagine di uno dei tanti libri della sua sterminata biblioteca. Perché, spiega l’autore, ne ha letti tanti ma non gli hanno insegnato a vivere: «La cultura è come un cattivo filtro, che impedisce una reazione immediata alla vita, aveva falsificato la mia sentimentalità come gli antibiotici possono distruggere le difese dell’organismo. I libri non mi salveranno né dalla decadenza né dalla morte».
Un personaggio così disincantato non poteva piacere troppo all’intellighenzia di sinistra, ormai sul punto di occupare gramscianamente il mondo culturale della Spagna post-Franco. Intellighenzia che infatti non perdonerà a Carvalho (cioè a Vàzquez Montalbàn) neppure la tendenza a infarcire i suoi romanzi di succulente ricette e grandi mangiate, naturalmente di cibi rigorosamente tradizionali: «La gastronomia era un tabù della sinistra. Veniva ritenuta una debolezza borghese e come tale disprezzata. Poi è successo che, anche in Italia, mi pare, sono diventati tutti dei gourmet, dei palati scelti».
In realtà il marxista “Manolo” ha sempre osservato con un certo distacco e scetticismo la parabola del comunismo europeo e della “sua” sinistra giunta al potere in Spagna con il socialista Felipe Gonzalez. «Noi abbiamo aspettato a lungo la rivelazione della democrazia – scrive il creatore di Pepe Carvalho – ma non sapevamo che doveva venire il potere, la corruzione». In questo senso il “noir mediterraneo” di Vàzquez Montalbàn è anche un profondo romanzo sociale, destinato ad accompagnare e intrecciare per 25 anni la storia della Spagna moderna. «È un incrocio tra hard-boiled tradizionale e nuovi substrati culturali – è la definizione dell’autore stesso – destinato a proporsi come poetica del neocapitalismo, cioè di una società supercompetitiva in cui l’intreccio tra crimine e politica è costante e fragilissimo è il limite tra il legale e l’illegale».
Non amando i ricchi e tanto meno gli intellettuali («Non disprezzo gli intellettuali, ma li conosco…»), l’universo di Vàzquez Montalbàn è costellato di figure marginali, sconfitte dalla storia e soprattutto dalla vita: Charo, la fidanzata storica del detective, che fa la prostituta; il factotum Biscuter, un ladro d’auto mezzo storpio conosciuto in carcere; l’informatore Bromuro, ex volontario falangista della Divisiòn Azul che ha combattuto in Russia a fianco dei tedeschi e pensa che l’Urss metta il calmante – da cui prende il soprannome – negli acquedotti occidentali, per far calare il desiderio sessuale degli uomini che vivono ad ovest ottenendo così l’estinzione della razza capitalista. E ancora il commercialista in pensione Fuster, compagno di sbronze e mangiate; e il poliziotto ex franchista Contreras, burbero ma sotto sotto affezionato a Carvalho.
L’intera, immensa opera di Vàzquez Montalbàn (22 fra romanzi e racconti con Pepe Carvalho, più una ventina di altri romanzi, una quarantina di saggi e molte raccolte di poesia) è contraddistinta da una malinconia di fondo: si sorride, magari si sogghigna, ma non c’è lieto fine e dopo l’ultima pagina resta sempre il gusto un po’ amaro tipico dell’uomo disincantato che non si prende troppo sul serio. Persino quando ragiona di temi “alti” come la sociologia politica: nel saggio “Pamphlet dal pianeta delle scimmie”, del 1995, così parla del crollo dei regimi filo-sovietici: «Il fallimento della sinistra si misura talvolta dalla natura dell’avversario: in Polonia la Madonna nera di Czestochowa si è dimostrata più potente dei comunisti».