Sarà un referendum popolare a decretare il futuro del Regno Unito: lo hanno deciso, a Edimburgo, Alex Salmond, il passionario Primo Ministro scozzese, e David Cameron, conservatore di stampo unionista alla guida politica del Gran Bretagna. Nell’autunno del 2014, un giorno molto vicino per i tempi della storia, ogni caledoniano che abbia compiuto i 16 anni d’età potrà votare per scegliere se far trionfare l’unionismo o salutare l’Inghilterra e riprendere quel percorso politico-amministrativo autonomo interrotto nel 1603.
Una scelta non di poco conto e che fa tremare il premier britannico, terrorizzato da un possibile esito favorevole del referendum. La domanda sarà secca e decisa – “Credi che la Scozia debba essere una nazione indipendente?” – e le possibilità che a vincere siano tutti quelli che vogliono, sì, una Scozia libera ed indipendente, mette a soqquadro la politica British. Nella primavera scorsa Cameron si era speso moltissimo per evitare il referendum; soprattutto, voleva evitare una campagna elettorale lunga ed estenuante. Aveva proposto un voto immediato, nell’autunno di quest’anno, per approfittare del rinato patriottismo post-olimpico e per cercare di far presa sull’incertezza di quelle ampie fasce dell’elettorato che, forse, non se la sarebbero sentita di votare, su due piedi, in favore di un cambiamento così radicale. Invece no; l’ha spuntata Salmond che ha chiesto due anni in più ed ha ottenuto che a votare siano anche i ragazzi di sedici anni: “Sono il futuro della Nazione” giura lui; “Sono facili da manipolare” ribattono i detrattori. Niente di più complesso, insomma, per una Nazione celtica che da oltre un secolo lotta contro il centralismo londinese, muovendosi come un pendolo tra indipendentismo e federalismo.
Se da un lato ci sono i conservatori che governano Londra e vogliono che l’Union Jack sventoli ancora a lungo; dall’altro ci sono i nazionalisti che proprio non sopportano quella bandiera, simbolo dell’imperialismo britannico. Nel mezzo, i Labour. La sinistra britannica negli anni Novanta, sotto la guida di Tony Blair, ha giocato un ruolo fondamentale per la vittoria referendaria in Scozia, Galles e Irlanda del Nord; ora è chiamata a prendere una posizione chiara per una scelta, davvero, rivoluzionaria. I laburisti si raccolgono in un partito di chiara impronta nazionale, sono favorevoli al federalismo, ma sono pur sempre sudditi leali, più che della Regina, di Sua Maestà Westminster. Sarà difficile per loro uscire dal guado e alla loro scelta è legato il futuro del Regno: il loro pacchetto di voti in Scozia è, nonostante l’attuale opposizione parlamentare, allettante non solo per lo SNP, ma per tutti quelli che credono, davvero, nell’indipendenza della Scozia.
La scelta di oggi, però, supera i confini scozzesi: sbarca sulle scogliere irlandesi e sull’Europa continentale, politicamente sottomessa dai diktat teutonici. Se nel 2014 ci sarà un referendum per l’indipendenza della Scozia, ci si aspetta, infatti, qualcosa di simile in Irlanda del Nord: le due nazioni sorelle hanno a lungo lottato su strade parallele per l’affermazione della loro autonomia politica; sono state pungolo l’una per l’altra nel corso del Novecento e adesso, con il vecchio secolo ormai alle spalle, è la più timida tra le due, la Scozia, a fare lo scatto che potrebbe ridisegnare la geopolitica internazionale. A Belfast, oggi, aspettavano che i due leader ponessero la loro firma sull’agreement e sono adesso pronti, anche loro, per ripartire con una campagna, degna della migliore tradizione celtica, che riporti le decisioni importanti nelle urne elettorali.
E questo è, poi, il più grande insegnamento dato dall’Isola britannica all’Europa continentale: il Regno Unito, in un’epoca che ha fame di politica e che rischia di morire di stenti, rimette sui binari giusti il rapporto tra le nazioni e rinsalda il patto tra il popolo e il governo. Atterrato a Edimburgo, David Cameron, il nipotino intelligente di Margaret Thatcher che sembra aver preso da lei solo l’ironia, ha saputo raccogliere una sfida che potrebbe abbatterlo politicamente, ma che, di certo, gli assicura l’onore delle armi. Accettare un rischio così alto, proprio nel momento in cui il suo governo incomincia a scoraggiare anche i più accaniti fan, rimette al centro la politica, e cioè la partecipazione delle persone alla vita della polis. Nella vecchia e saccente Europa continentale, invece, il rischio non è politicamente contemplato e si preferisce cadere su un morbido materasso ben sistemato, piuttosto che imbracciare le proprie idee e lottare con le armi della retorica per far sì che siano loro a trionfare. Il dominio del pensiero unico che sta indebolendo la politica europea, lentamente come se si volesse, pian piano, preparare il terreno per un’epoca futura, sembra una rimembranza di primo Ottocento al cospetto del dinamismo britannico. E allora, per fortuna esistono la Scozia e il Regno Unito: è al di là de La Manica che si vede, oggi, chi ha in mano il pallino del gioco. Qui, nella tradizionale e impettita Europa, i tailleur della germanica Cancelliera continuano a volare tra una Capitale e l’altra, per dispensare soluzioni trascritte nel monotono libro di ricette che addormentano i cittadini e rinvigoriscono i governanti. In Scozia no; la parola passa alle persone: barrare un simbolo su una scheda è, in effetti, sinonimo di libertà.