Come spesso accade, da Tucidide in poi, a raccontare al meglio la storia è chi è sul campo, chi combatte o chi divide con i militari l’esperienza del conflitto. Nessuno ha spiegato la guerra di Indocina e d’Algeria meglio di quanto abbia fatto Jean Lartéguy, pseudonimo di Jean-Pierre Lucien Osty, nato nel 1920, combattente della Resistenza e componente dell’Armata francese della Liberazione. Dopo il 1945 entrò nella riserva e lavorò come inviato di guerra per Paris Match. Per decenni ha seguito i militari, le rivoluzioni, i conflitti che hanno scosso il mondo non solo raccontando quello che accadeva ma anche la psicologia dei soldati, dei rivoluzionari, le motivazioni che c’erano nel nuovo modo di combattere. Le strategie e la tattica dai rivoluzionari che seguivano nella giungla Vo Nguyen Giap, grande generale vietnamita, alle tecniche di controgurerriglia messe in atto in Algeria da uomini come il generale Marcel Bigeard.
Di Jean Lartéguy Mursia editore ha ripubblicato, a distanza di 47 anni, I centurioni (la prima edizione, parziale, fu stampata da Garzanti nel 1966 col titolo Né onore né gloria), libro di grande importanza (in Francia fu un best seller da oltre mezzo milione di copie) perché in quello che non è solo un romanzo il giornalista francese ha descritto per la prima volta il nuovo approccio alla guerra: quello del soldato ideologico, appartenente a una fazione che combatteva per un’idea. Lartéguy è morto nel 2011 a 81 anni, e in Francia recentemente è uscita una biografia scritta da Hubert Le Roux dal titolo Jean Lartéguy, le dernier centurion, edita da Tallandier. Lartéguy è importante in quanto ha narrato una vera e propria epopea, dal 1947 al 1962, anno in cui con il trattato di Evian il generale Charles De Gaulle concesse l’indipendenza all’Algeria.
Ma che successe in quegli anni? Dagli acquitrini d’Indocina al deserto agli scontri armati non convenzionali, i militari in mimetica erano forti e temprati. L’avanguardia dell’impero francese. De Gaulle li aveva definiti “il più bell’esercito dai tempi di Napoleone” ma quando la polemica si inasprì sul futuro dell’Algeria, il 23 novembre del 1961, davanti a ottanta generali e duemila ufficiali, a Strasburgo, come ricorda lo storico George Kelly (Soldati perduti, Sansoni 1967) disse: “Una volta che lo Stato e Nazione hanno scelto la loro strada, il dovere dei militari è senz’altro e tassativamente precisato. All’infuori di queste direttrici non ci possono essere e non ci sono che soldati perduti”.
Una condanna senza appello contro i “centurioni”. La guerra d’Algeria si era svolta con modalità molto dure: guerriglia, attentati, scontri, pesanti ritorsioni contro i fellagha algerini, una guerra asimmetrica nella quale i militari puntavano ad acquisire credibilità nella popolazione, composta anche da un milione di europei, i pieds noirs. Utilizzavano nello scontro con i componenti del Fln parole d’ordine opposte: alla voglia di indipendenza dei nazionalisti algerini contrapponevano un progetto di assimilazione, una sorta di integrazione in una prospettiva imperiale, che in un certo qual modo potrebbe ricordare quello romano.
Una guerra rivoluzionaria appresa dall’esperienza dell’Indocina, dove i francesi dovettero ritirarsi dopo la disastrosa battaglia di Dien Bien Phu. L’unica speranza era De Gaulle, un generale, comandante della Resistenza nazionale durante il secondo conflitto mondiale, anticomunista. Nel 1958, sulla spinta anche dei militari, il generale tornò al potere ma non condivise il progetto di avventure coloniali e di integrazioni. La situazione precipitò nel 1961, quando i generali di stanza ad Algeri lanciarono una sfida chiedendo che l’Algeria restasse dipartimento francese e tentarono un putsch.
De Gaulle affrontò la situazione e risolse la crisi: sciolse i reparti ribelli, fece arrestare i comandanti e molti militari scelsero la clandestinità nell’Oas (Organisation armée sécrète) organizzazione militare che operò anche nel territorio metropolitano ma che fallì.
Una realtà, quella di questi militi politici, che si era plasmata nelle risaie del Tonchino, nei campi di prigionia vietminh (si veda anche l’interessante Legionnaire au Nord-Tonkin del tenente colonnello Max Gaudron, edito da Copernic), nei vicoli della casbah di Algeri, nel deserto.
I centurioni sarebbe stato alla base del film di Gillo Pontecorvo La battaglia di Algeri, film premiato nel 1966 con il Leone d’oro alla Mostra cinematografica di Venezia. Un fenomeno, quindi, storico, letterario, politico. Al punto che il generale Usa David Petraeus, che ha risolto la crisi in Iraq, ha giudicato il libro di Lartéguy rilevante per comprendere quel genere di guerre. E ha pressato l’editore Usa a ristampare un’altra edizione. E’ tanto penetrata nella coscienza europea la vicenda algerina che anche da I centurioni è stato tratto un film nel 1966, Né onore né gloria di Mark Robson, con Alain Delon, Anthony Quinn, Claudia Cardinale. Il film ha segnato un’epoca mostrando, anche se in maniera non sempre fedele al romanzo, la vicenda vissuta dai parà francesi che combatterono in Algeria. E’ il caso eclatante di battaglie vinte sul terreno ma perse nei palazzi, nei meandri della politica.
Dati che fanno riflettere. I nostri soldati, a esempio, sono impegnati nelle missioni umanitarie e, con i dovuti raffronti e le dovute differenze, resta qualche perplessità nel contare che negli ultimi quindici anni sono morti più di 50 e di ridiscutere le regole di ingaggio non se ne parla. Così come l’ultima vittima, il bersagliere capitano La Rosa è stato ucciso proprio in un’azione di guerriglia non di scontro convenzionale. Che sia necessario rivedere i parametri di una guerra in realtà asimmetrica anche in Afghanistan?