Signor de Benoist, era ineluttabile l’arroventarsi del Vicino e del Medio Oriente?
“Oggi l’opzione diplomatica pare prevalere. Ma per quanto? C’è un partito della guerra e non solo negli Stati Uniti. L’obiettivo è stato esposto da un pezzo, specie dai neocon del Progetto per un nuovo secolo americano: eliminare in tutta l’area i poteri stabili, balcanizzare i paesi più forti e ovunque scatenare guerra civile endemica e caos. ‘Divide et impera’. Da questo punto di vista, la crisi siriana va posta in prospettiva storica. Da decenni gli Stati Uniti combattono i movimenti nazionalisti arabi laici e sostengono gli islamisti sunniti estremisti. Lo facevano già ai tempi di Nasser. In Afghanistan, durante l’occupazione sovietica, hanno sostenuto i talebani. Oggi, mentre riconquistano l’indipendenza energetica, che dovrebbe renderli meno sensibili alle monarchie petrolifere, restano alleati a un’Arabia Saudita che alimenta il wahabismo e le stragi degli sciiti. Per il partito della guerra, la Siria è un’opportunità tra altre. Così il Vicino Oriente resta la pentola bollente dalla quale può uscire la nuova guerra mondiale”.
I richiami di Putin avranno effetti duraturi? E che cosa pensare del ruolo dei media, dopo la testimonianza di Pierre Piccinin, il giornalista preso in ostaggio in Siria dall’Asl, che attribuisce ai ribelli l’uso delle armi chimiche?
“Ogni giorno che passa suggerisce che l’uso delle armi chimiche nell’area di Damasco sia una montatura analoga a quella di Timisoara, in Romania, un quarto di secolo fa. Quanto a Putin, le sue iniziative hanno determinato l’evoluzione della crisi. Prendendo in parola John Kerry, per il quale gli Stati Uniti avrebbero rinunciato a colpire Damasco se la Siria avesse rinunciato alle armi chimiche, Putin si è rivelato abile scacchista. Grazie al caso siriano e in un contesto non più da Guerra fredda, la Russia ha ritrovato prerogative di grande potenza. Contemporaneamente la geopolitica ha ritrovato i suo diritti. Questo grande ritorno della Russia è un evento storico di prima grandezza. Di minore grandezza è il rifiuto del Parlamento britannico di approvare la guerra d’aggressione prevista da David Cameron, Barack Obama e dal piccolo Hollande. L’ostilità massiccia alla guerra – manifestata da un’opinione pubblica americana memore delle bugie del governo Bush e degli esiti catastrofici degli interventi militari in Irak e Afghanistan – è anch’essa un fenomeno nuovo, da non sottovalutare”.
Dall’inizio della vicenda, Obama è stato reticente. Come se volesse restare fedele al suo discorso al Cairo subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca. Come se fosse tirato da forze opposte…
“Obama subisce pressioni contrastanti: il Pentagono, per esempio, è molto meno favorevole a intervenire in Siria dei neocon del Congresso. Sa anche che il tema della linea rossa, corrispondente all’uso delle armi chimiche, può volgersi contro di lui. Dopo le bombe di Hiroshima e Nagasaki, gli Stati Uniti hanno continuato a usare armi di distruzione di massa: bombe al fosforo, napalm, agente Orange, defoglianti vari, proiettili all’uranio impoverito, ecc. Nel 1990 gli americani dicevano di avere 30.000 tonnellate di armi chimiche! Si impegnarono a distruggerle entro il 2012, ma non l’hanno fatto. Le 2611 tonnellate di gas mostarda depositate a Pueblo, Colorado, per citare solo quelle, non potranno essere distrutte prima del 2018. Le armi chimiche immagazzinate nel Kentucky lo saranno, al più, nel 2023. E la Convenzione per la distruzione delle armi chimiche (alla quale la Siria ha ora deciso di aderire) è stata firmata, ma non ratificata, da Israele”.
Israele: un silenzio assordante. Che cosa dedurne? Che cosa concluderne?
“Si può pensare che Israele tenga un basso profilo per non apparire il principale beneficiato di un attacco americano in Siria. Ma l’Aipac, che rappresenta la lobby israeliana negli Stati Uniti, ha esortato Obama a lanciare i missili al più presto. In realtà anche là gli esperti sono divisi. Ci sono quelli che preferiscono al potere Bachar el Assad, perché è un nemico prevedibile (del resto lascia che Israele occupi le alture del Golan) e chi ci vorrebbe jihadisti perché il caos conseguente sarebbe una situazione più favorevole, considerando essenziale sopprimere, con Assad, un alleato degli Hezbollah in Libano e dell’Iran, soprattutto. Evocando Assad e la ribellione, Alon Pinkas, ex console generale d’Israele a New York, diceva: ‘L’ideale sarebbe che entrambi morissero dissanguati’. Che cosa succederebbe se una nuova provocazione dei ribelli siriani prendesse di mira Israele, come Putin ha ipotizzato? Una situazione così pericolosa, dove tutto può essere rimesso in causa dall’oggi al domani, per essere correttamente analizzata esigerebbe ben altre competenze che quelle di François Hollande e Laurent Fabius”.(traduzione di Maurizio Cabona)
*da bvoltaire.fr