Per un professionista della comunicazione, il messaggio di Silvio Berlusconi alla Nazione è stato un flop. Chiaramente, il suo pubblico, quello «zoccolo duro» composto da veterani e reduci della prima campagna del ’94, rinforzato con i resti delle masse ex missine che, dopo la disfatta del «partito unico» e della diaspora finiana, sono ormai ridotte a recitare la parte della «ruotina» di scorta, per mantenere un «posto al sole» della politica, lo amerà sempre e sempre lo voterà.
«Ribellatevi!», questo il grido che un uomo vecchio e stanco, al quale la magistratura sta cercando di togliere tutto, ha rivolto ai suoi «elettori». Ribellarsi a che cosa? Ad un governo delle «larghe intese»? Ma se lo ha voluto lui! Sicuramente, i «padroni di Bruxelles» lo hanno incastrato quando, nel 2011, lo costrinsero alle dimissioni e aprirono la strada a Monti. Ma la proposta di appoggiare Monti, in accordo con il Pd, l’ha fatta lui, mica noi. Il tutto con la regale autorizzazione del Quirinale. La crisi politica, da lui voluta, ma anche condivisa da un centrosinistra sicuro di una brillante vittoria, ha portato il Paese alle politiche del 2013. Prima di quella, dal 2006, la legge elettorale detta «porcellum», voluta fortemente da Berlusconi, ha visto nel 2006 vincere Prodi, nel 2008 vincere Berlusconi. Quindi dal punto di vista politico e costruttivo di una azione di governo responsabile, un fallimento totale. Eppure il «porcellum» era la legge elettorale perfetta per il controllo delle masse da parte della politica serva del capitale.
Tempo fa in televisione, uno dei tanti ospiti ad una trasmissione di finta informazione politica, dichiarava che in Italia non si potrà mai fare una rivoluzione, al massimo una rivolta. Questo perché l’Italia è un Paese che per secoli ha avuto, come padroni, la Chiesa, la Monarchia ed il Capitale.
Il vero padrone dell’Italia, dell’Europa, dell’Occidente è il capitale. Esso si esprime attraverso le banche anglosassoni, specialmente quelle americane.
Nel corso degli ultimi secoli, che hanno visto affermarsi la rivoluzione industriale, il capitale per difendere i propri interessi ha formato quel sistema politico liberaldemocratico, per il quale i Governi sono liberali e favoriscono il nascere delle varie forze. Nello stesso tempo, però, mantiene intatto nelle proprie mani quel minimo di potere necessario alla conservazione dei governi liberaldemocratici. Gli stessi partiti nascono, anzi, vengono costruiti a tavolino, per dar modo al popolo di sfogarsi in innocue battaglie elettorali. Allorché si profila all’orizzonte una crisi, ecco che il capitale, che tiene le redini della politica, fa in modo che la lotta parlamentare si accresca in proporzione.
Le elezioni, o meglio quello che una volta si chiamava suffragio universale e rappresentava il fine ultimo della lotta politica, rappresentano la valvola di sfogo del pathos rivoluzionario del popolo, assopendo nelle classi più umili e sfruttate dalla società del capitale gli istinti insurrezionali.
Tutti parlano sempre delle rivoluzioni del 1776, del 1789, del 1917, come di avvenimenti che «sconvolsero il mondo».
La rivoluzione americana del 1776 nasce dalla reazione dei mercanti delle colonie, cittadini inglesi, nei confronti del governo della Corona per problemi di tasse e dazi. Il lato etico e spirituale verrà in seguito, con l’apporto dei membri del Congresso, in maggioranza massoni, ad iniziare da Washington. Quello stesso Washington, generale, che guiderà la rivoluzione americana e ne diverrà il primo Presidente.
La rivoluzione del 1789 nasce all’interno della borghesia francese come forma di contrasto con la nobiltà ed il clero. Fu più cruenta, perché l’odio era contro nobili e preti, ma anche qui furono interessi commerciali e capitalisti, legati alle partecipazioni inglesi sul Continente, a guidare le prime azioni. Alla fine la politica sarà costretta a rivolgersi all’esercito, e fu Napoleone sulla punta delle baionette a dare forma e struttura al nuovo Stato francese. Anche lui, però, sarà abbattuto dal capitale, quello inglese, che coalizzerà contro di lui tutta l’Europa.
Lenin. Esilio dorato tra la Svizzera e Capri, mentre la prima guerra civile europea, fomentata dal capitalismo rampante contro il vecchio mondo delle teste coronate, si sta preparando. Saranno i soldi prussiani ed un treno blindato a portarlo alla Stazione Finlandia e a quei «dieci giorni che sconvolsero il mondo». Anche qui il capitale, specialmente quello americano, ebbe la sua parte. Il resto è storia.
Lo stesso fenomeno Grillo rientra nel cliché: ha permesso a milioni di persone di sfogarsi, sognando baionette con le quali aprire il Parlamento come una scatola di tonno. È finito a pesci in faccia con la Boldrini. Finché la finanza delle banche continuerà a controllare la politica, sarà inutile andare a votare. Chiunque vinca è sempre il popolo che perde. Il vecchio di Arcore parla di ribellarsi, ma la rivolta, per quanto grande sia, è utile al potere per inasprire controllo e repressione. Il capitale usa il denaro come strumento di controllo ed ha paura di una rivoluzione, perché è un atto cosciente e costruttivo. In fondo, l’euro è stato voluto per ingabbiare l’Europa e soffocare gli istinti rivoluzionari dei popoli. È per questo che dal «viale del tramonto» di Arcore, si chiama alla rivolta e non alla rivoluzione.
* editoriale de Il Borghese di ottobre 2013