“Fui quella rosa canina senza fortuna
che nessuno un giorno avrebbe pensato fiore.
Sono cresciuto, ma ho conservato la terra
le cui dure zolle butto in faccia ai borghesi”.
Armand Robin avrebbe forse preferito l’assenza alla presenza, l’oblio evocativo al didascalico omaggio. Per il poeta francese infatti “qualunque biografia è distruttiva, sovversiva” e “ripercorrere al contrario la strada conquistata da ogni uomo nella sua vita passo dopo passo” sarebbe “un genere letterario che va lasciato alla polizia”. D’altra parte lo stesso Robin in L’uomo senza notizia definisce false le voci circolate su di lui per poi ammetterle forse sottobanco; come se, appunto, egli stesso non credesse a un solo se stesso, come se non volesse cedere a un “flagrante reato di presenza” e nemmeno confidasse in un sé raccontato dagli altri, quasi fosse vacante a sé, estraneo alla sua persona. È pertanto rispettando questa sorta di ontologia sottrattiva che ci accingiamo titubanti a raccontare della sua vita solo qualche dettaglio per poi proseguire con la disamina di uno dei suoi testi più rappresentativi.
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Armand Robin nasce in Bretagna nel 1912 in una famiglia di poveri contadini che gli parlano in dialetto fissel. Il giovane studia a Parigi, fa proprie una ventina di lingue e diventa in breve tempo traduttore oltre che poeta – e in seguito anche scrittore, visto che pubblicherà nel 1942 il romanzo lirico Le Temps qu’il Fait. Nel 1933, dopo aver attraversato il confine polacco, si stabilisce per qualche tempo in un kolchoz russo lavorando con i contadini. Questa esperienza – che gli darà modo di toccare con mano la ferocia della dittatura staliniana – segna l’incipit del suo allontanamento dai comunisti e, come accade in Simone Weil, l’aurora della sua radicale ribellione al totalitarismo. Durante la guerra il poeta, già amico di Drieu La Rochelle, lavora presso il Ministero dell’Informazione del governo di Vichy in qualità di collaboratore tecnico col compito di ascoltare quotidianamente le radio straniere per stilare dei “bollettini d’ascolto”. E, nonostante talvolta egli passi questi resoconti anche al Servizio d’Informazione Clandestino e ai giornali della resistenza, Aragon e compagni inseriranno il suo nome nella lista nera dei collaborazionisti – ossia in una di quelle liste che a tanti, come a Robert Brasillach, costeranno la vita. Eppure nelle sue “lettere indesiderabili” Robin provocherà gli stessi nazisti nonché i comunisti accusandoli principalmente del medesimo reato: l’uccisione interiore di milioni di uomini, la loro decapitazione mentale, desensibilizzazione, cadaverizzazione. Dopo la guerra il poeta si avvicinerà alla Federazione Anarchica e collaborerà con varie riviste sia politiche che letterarie; continuerà inoltre a tradurre le trasmissioni delle radio straniere calcando inesausto le strade d’Europa con la sua motocicletta “brillante come il veleno” per morire nel 1961 pieno di debiti, dopo un misterioso alterco in un bar, nell’infermeria di una prigione. I suoi beni andranno al macero pubblico e si salveranno solo tre valige di manoscritti.
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Ora che con queste scarne notizie la nostra pseudo-opera poliziesca è compiuta, non ci resta che circoscrivere ancora il recinto dei tradimenti concentrandoci su La falsa parola – saggio del 1953 inserito in L’indesiderabile, raccolta pubblicata nel 2019 da Giometti&Antonello. Il volume, che contiene vari saggi di Robin, è curato da Antonio Malinvero – la traduzione delle tre lettere indesiderabili è invece di Andrea Chersi. La scrittura di Robin è suggestiva, al contempo chiara, mattinale e oscura, precisa ed evocativa. Già la prima frase del saggio di derivazione araba appare quantomeno bizzarra: “il leone mise il suo burnus ad asciugare nel fiume”. La frase ha solo il fine di “far applicare su un piccolo numero di precise parole alcune formule di quell’algebra che è la lingua araba”. Per questo appare sensata e grammaticalmente centrata. Invece la proposizione “Tito è un agente del Vaticano”, trasmessa dalla radio di Mosca in ceco nel 1951, manca di buonsenso perché premette implicitamente qualcosa di indimostrato, ossia che tutto ciò che è americano (cioè non sovietico) è negativo; presuppone inoltre che, essendo Tito e il Papa contro i sovietici, allora debbano essere anche conniventi e a favore degli americani. Allo stesso modo, osserva lo scrittore, gli stalinisti accusano insensatamente i trotskisti di essere nazisti. Il buonsenso della grammatica, insomma, è assai superiore alla mancanza di buonsenso della propaganda. Ma Robin è ancora più radicale quando scrive che nel folle totalitarismo “il contrario assorbe il suo contrario, così che il principio di identità è metafisicamente pervertito”. Pertanto, mentre il tiranno attende di eliminare il corpo del nemico, con la propaganda uccide la sua mente annichilendolo verbalmente:
“(…) il limite dell’assurdo deve venire costantemente infranto, e l’assurdo reso perfetto, in modo da scoraggiare lo Spirito e lo strumento dello Spirito: il Verbo”.
Niente, chiosa il poeta, deve significare niente: siccome nulla ha senso, tutto ha senso. Echeggia qui l’analisi di Orwell secondo cui la propaganda sovverte completamente il senso delle parole – “la guerra è pace”, “la libertà è schiavitù”, “l’ignoranza è forza” – e affiora l’idea ripresa anche da Arendt e Weil secondo cui l’ideologia che si veste di propaganda è, ancora prima del terrore, la cifra del totalitarismo poiché uccide l’uomo preliminarmente – ovvero prima che il suo corpo muoia. Il burocrate propagandista si fa “strumento di vaniloquio”, è un ingranaggio automatico agito da “potenze metafisiche”. Per Robin se la grammatica e la logica vengono corrotte, se frana il nesso tra il segno e la cosa, la stessa sfera della verità si sgretola. Il “biblico sterminio del linguaggio” inaugura lager linguistici che non comunicano più nulla: non c’è più alcun ambasciatore, nessun angelo della Parola. Il linguaggio è d’altronde come per Heidegger “casa dell’essere” e il poeta è messaggero anche nella risacca della traduzione, egli ammutolisce il “si dice” ripudiando la reificazione dell’inesprimibile. La parola è, come per Benjamin, immemorante – rievocante l’atemporale, l’originario, ciò che, nel suo darsi nuvoloso, precorre il segno. Perciò, se il linguaggio è la radura dell’essere, la degenerazione dello stesso ingenera la modifica dell’essenza umana. E se ancora Heidegger asseriva che l’essenza della tecnica non è nulla di tecnico, il linguaggio – che nel meccanismo della propaganda è eminentemente tecnico – è ciò di cui ne va della nostra stessa essenza. Chi cerca di accedere all’esistenza nel linguaggio della propaganda, non pensa; è piuttosto il pensato, la banalità, il progetto dell’altro, vale a dire non è. E quando ci si riferisce alla possibilità del pensiero non si allude al pensiero calcolante che sottomette la natura riducendo a macchine gli uragani, non è il pensiero della matematica quello al quale ci si rimanda, non si tratta di un’operazione, non si tratta di un procedere da quantità a quantità. È invece il pensiero che dispone l’uomo al suo stesso senso; è, in breve, il dire come atto dello Spirito, è la stessa, concreta opera della libertà, è la libertà in opera. La libertà che il linguaggio fonda è altresì possibilità di dissentire dalla narrazione che nella ideologia cristallizza ogni verità, ogni identità. Altrimenti – se tutti funzioniamo come stupidi automi – che ne dovrebbe essere dell’uomo? Al posto delle parole assassinate dalla propaganda ci sarebbero “cadaveri assurdi, segni invertiti, parodia”. “Tu ormai sei soltanto la ripetizione permanente di tutte le tue parole uccise”, scrive il poeta. È una guerra contro il cervello, la guerra del secolo – del Ventesimo, certo – e non solo. È ordunque questo l’insegnamento di Robin: il pervertimento del linguaggio consente al potere di eliminare l’uomo mentalmente, di inebetirlo, di renderlo docile, mansueto, addomesticato, inoffensivo, appunto morto – senza che ci sia quasi più il bisogno di eliminarlo fisicamente. Gli uccelli rapaci della propaganda parlano l’anti-parola, barattano la sostanza con l’apparenza, la natura con desideri egoistici, presidiano l’anti-realtà, succhiano anime, soggiogano, divorano, “saharizzano” popoli interi. Il linguaggio della propaganda è trascendente e non risparmia neppure chi si ritiene di dominarlo, è uno spirito oggettivato che vive di vita propria, direbbe Georg Simmel. E anche nel caso in cui il linguaggio veicoli una concezione del mondo materialistica (marxismo e capitalismo) non si tratta veramente di materialismo perché l’oggetto di dominio è sempre lo Spirito – e non basta, direbbe ancora Heidegger, ribaltare una proposizione metafisica per uscire dalla metafisica. Il sovvertimento del linguaggio che attiva entità sovrapersonali e che apparentemente esalta tutti i predatori mentali, opera a livello ontologico – è psicofagia, sbranamento del soffio vitale. Le formule ripetute assomigliano a litanie religiose – “magnetismo, ipnotismo, occultismo, fachirismo, feticismo” – atte a edificare un vero e proprio irrazionale mito e la dittatura del non-senso. La desensibilizzazione arriva al punto che le masse sono indotte a bramare la loro stessa schiavitù mentale – come se fossero affette da una generalizzata sindrome di Stoccolma e fossero “fanaticamente innamorate del loro sparviero predatore”. Nel momento in cui dovessero smettere di essere cannibalizzate, si sentirebbero in pericolo mortale – questo è un dominio luciferino, un “regno metafisico al contrario”. La “satira metafisica” di Robin, riprendendo forse le esegesi dei filosofi francofortesi, precorre le considerazioni di Guy Debord. La società tratteggiata dallo scrittore bretone è infatti organizzata per allestire un irrazionale spettacolo in cui i fruitori, guidati a distanza, esperiscono un paradossale senso di piacere. Davanti alla realtà artificialmente assemblata gli spettatori sono certi di vedere di più, di acquisire informazioni funzionali alla partecipazione democratica, ma le notizie non ci dicono nulla e gli spettatori sono resi immensamente più ciechi, gli occhi sono loro strappati. Non è nel Medioevo che l’uomo con la superstizione ha reso schiavo l’altro uomo: solo oggi è accaduto veramente; solo oggi è successo che degli “assassini psichici a distanza”, mediante l’irrazionalismo del razionalismo, abbiano magicamente ridotto “l’umanità alla alienazione mentale”. In questo scenario apparentemente immodificabile e preordinato all’estinzione dell’umano, si innesta tuttavia un tentativo di salvezza. Infatti nel suo iperbolico viaggio verso il ni-ente la parola custodisce le tracce di qualcosa che fugge e che salva. Non tutti si piegano, non lo fanno gli “uomini molto semplici” che tendono naturalmente al non-potere, che dicono ciò che pensano e pensano ciò che dicono, che sono “irriducibilmente consustanziali alle proprie parole”, che sono ancora dolorosamente a contatto con le zolle della terra, col dolore, con le cose. Ciò significa uscire dallo spettacolo, tornare alla realtà, essere sovrabbondanti di vita – di ali, di acqua, financo di desolante ombra, se si vuole “avvicinare la prima vera riva”. Ci sono inoltre gli scrittori veri che non remano verso il successo, che non sfornano pensiero a ogni costo e che si sentono liberi perché evitano di dipendere da “un ruolo politico”. Solo così, affrancato dagli eventi, dalle lusinghe e dall’intrattenimento del potere, lo scrittore difende “la civiltà del suo Paese, anche quando tutto sembra perduto”. La libertà deve essere assoluta, lo scrittore trascende tutto, ma tracciando il mondo lo mantiene intatto, lo salva. C’è poi il solitario metafisico, il poeta che non baratta mai la sua anima, che sa trovare il rovescio di ogni parola interpretandola nel non-luogo della sua testa. E c’è il poeta che si fa traduttore perdendo se stesso in ogni lingua, pervenendo al non-linguaggio che inizia all’ur-linguaggio. Il traduttore mediante i linguaggi diventa ogni uomo, diventa Verbo. Chi decostruisce il potere, chi ne svela i meccanismi, chi sa di essere dominato, chi sa di non avere scampo è sulla strada della salvezza che, come sapeva Hölderlin, cresce proprio dove ci si arrischia. La salvezza è perciò una questione tragica, individuale, è un gridare nel deserto, a volte; è un dire contro, un autoelidersi, un parlare ai sordi, un mostrare ai ciechi. È così che i poeti – angeli estremi – talvolta si uccidono, è così che talvolta rinunciano a scrivere, è così che talvolta rimangono nella loro terra sino a morirne, è così che, anche senza morire, i poeti si spengono, è così che, infine, senza essere mai infranti, scrivono. I poeti che pure nel tradurre – in una forma di amorevole abbandono della superfice – dicono di no financo a se stessi, i poeti che ridanno luce alla poesia nella traduzione per essere dimenticati da tutti e che, narcisi senza specchio, amano l’oblio dell’io; i poeti che non sono servi di nessun capotribù, che non danno l’assenso a nulla senza soffrirlo, che non cercano meriti, che sono contenti di una poesia solo se non si può vendere, se sanguina. Robin auscultando le voci degli altri Paesi accoglie brusii da “un regno d’oltre ascolto” e si fa supervisore dell’insensato schiamazzo del mondo – “luogo assoluto di tutti gli scontri, annullo inerte l’universo degli scontri”. In questa infernale bolgia di invenzione disumanizzante Armand Robin ha ritrovato la strada che tramite il linguaggio conduce all’uomo, la strada della rifondazione del dire, pastore della parola, pontefice del Verbo – oppositore, incorrotto, non classificabile, inscalfibile come un diamante, assoluto, libero, indesiderabile. Ecco un poeta.