Innumerevoli gli scrittori americani che conservano le cicatrici dei genitori a Ellis Island, l’isola degli immigrati. Nel loro animo i retaggi della vecchia Europa. Non così per William Faulkner che esibiva una superba saga familiare sudista, con tanto di bisnonno colonnello dei confederati, eroe e mito. Per adeguarsi al parente celebre William fingerà una ferita inferta nella prima guerra mondiale. Vantava una partecipazione al conflitto nell’aereonautica come pilota, ahimè non si trovano documenti a suffragarlo. Comunque un legame con l’Europa c’è, ed è il suo innamoramento per la prosa innovativa e sperimentale di James Joyce.
William Faulkner nasce nel 1897 a New Albany, a cinque anni la sua famiglia si trasferisce a Oxford nello stato Mississippi. La sua tana trasuda cimeli e rimpianti per la guerra di secessione perduta, di crisi per il passaggio da una agricoltura ormai vetusta all’industria. Ci sono le capanne dei neri con le loro storie ancestrali. Lui si mette a scrivere esaltando le gesta dei parenti militari e fondatori di ferrovie.
Il suo cammino letterario inizia nel 1921 con una raccolta di poesie pubblicate a sue spese, rimaste quasi tutte invendute. Si prende una pausa e s’imbarca per l’Europa. Approda a Genova, ammira la costa di Rapallo celebrata da Yeats e onora il regno di Pound. Poi Stresa, Montreaux e soggiorna a Parigi. Quando nel 1953 ritornerà in Italia sarà già debilitato dall’alcolismo e in confusione. Hemingway afferma che lo batte perché lui incomincia a bere alle 10 mentre William alle 8. Al rientro in America un suo romanzo viene rifiutato da 11 editori. Lavora in una centrale elettrica e di notte scrive.
Nel 1929 esce “L’urlo e il furore”. Le vicende umane della famiglia Compson con il corollario delle comparse nere, il gorgoglio dei salmi della consolazione. Un puzzle prezioso, aristocratico, per le frasi lunghe ed ellittiche, contrapposte a quelle minimaliste del rivale Hemingway. Questi chiama il suo stile iceberg. “L’urlo e il furore” è reso criptico dai tanti personaggi e dai balzi nel tempo. Una sinfonia spezzata dai contrasti feroci degli attori, bianchi e neri, riottosi a recitare la vita assegnata. Il fondale è reso immobile dai giorni roventi, dalle tradizioni. Il lamento: la maledizione scende dal cielo, per mano di Iddio, a concimare uomini e terreno. “Un giorno ti vien da pensare che la sventura prima o poi si stancherà. Ma allora la tua sventura è il tempo, diceva il babbo.” In appendice l’autore riporta le istruzioni per leggerlo. C’è l’elenco dei personaggi e accanto ad ognuno note di comportamento e chiarimento. La chiave di lettura.
Il successo arriva nel 1931 con “Santuario”, il romanzo nero. Il suo contenuto spumeggiante ha il ritmo, il tambureggiare nervoso di una creazione pulp. Nel “Santuario”, un bordello, imperversano i bootleggers, contrabbandieri di alcol nel proibizionismo, linciaggi, impiccagioni, una giustizia che si arrende alla legge. Contiene il famoso episodio della studentessa Temple, si noti santuario e tempio, stuprata con la pannocchia di granoturco. Uno scandalo! Il problema: il racconto dell’orrore, che si credeva immaginato da una mente perversa era vero! I cittadini lo leggevano di nascosto e andavano a protestare perché vi si riconoscevano. Lui lo confessa: ”Io non creo simboli ma uomini in carne ed ossa.” Scrive come un angelo, dicono, ma gli piace razzolare nella spazzatura. Giustamente si impregna, si sporca, e sovente dimentica di indicare la salvezza. È vittima di un suo puritanesimo che beffardo gli si ritorcerà contro con l’accusa di razzismo. “I negri non sono più schiavi ma vengono ancora discriminati,” dice ma non basta.
William è un uomo bianco del Sud e come tale si esprime. Un affresco non può essere prodotto con i piagnucolii buonisti, le geremiadi, di 100 anni dopo. Non riporta in modo esagerato i torti inflitti ai neri perché in quegli anni erano normalità. Anche lui ha dovuto subire, ha subito i “bianchi stranieri”. È la vita! I profeti del nulla in agguato con la loro nefanda cancel culture, una Minerva divenuta assassina, condurranno gli scrittori all’impotenza.
Due anni dopo Sartre lo definisce il nuovo Proust. A seguire Malraux: “È l’intrusione della tragedia greca nel poliziesco.” Cecchi ci trova “echi e rintocchi conradiani, ron ron flaubertiani. Vittorini: “È la voce di un bambino che grida nella notte.” La Fernanda Pivano con un saggio lo salva dall’omologazione nei giallisti.
Faulkner. Quando i critici lo stringono d’assedio si difende dicendo: “Io sono un contadino.” Non apre la posta che riceve e la getta in un pozzo. Il suo giudizio sul libro: “Un’idea meschina per far quattrini. Non riuscivo a pubblicare, mi rifiutavano.”
Il suo gusto per il noir viene confermato da: “Requiem per una monaca” del 1951 adattato da Albert Camus a opera teatrale.
Nel 1932 ottiene un contratto a Hollywood per lavorare sulle sceneggiature di altri. Una servitù umiliante! L’inizio non avviene nel migliore dei modi. Si presenta ubriaco, disperato per i lutti familiari: una figlia di pochi giorni, il padre, il fratello che volava per davvero. Il compenso, 500 dollari a settimana, sono tanta manna e coprono i mancati guadagni dei libri. Ma Hollywood conferma di essere l’emporio dei sogni. Estrae dal cilindro un nuovo William con la sua amante Meta Carpenter e un harem di donne bellissime. Chissà perché William disegna a matita gli amplessi. Una collezione di disegni pornografici conservata tuttora nella biblioteca di New York.
“Assalonne, Assalonne!” è del 1936. “Le realtà appariranno grotteschi gesti da miraggio.” Per alcuni una epistemologia narrativa. Una prolissa narrazione che fa risorgere i morti. Le regola del momento: avere schiavi per non essere schiavo, e Jim Bond si adegua. Si cita Macbeth per le ricchezze accumulate e lo sfacelo susseguente. Io lo accompagno al Mazzarò del Verga con la sua roba. La cruna dell’ago ci attende ed è stretta, non si può trapassarla portandoci appresso l’ingordo bottino. A Jim Bond resta solo un rampollo di colore idiota che ulula tra le rovine della casa incendiata. Mazzarò stringe la roba che deve lasciare ed è folle di rabbia. “Questa è la vita: agitarsi senza soste per conquistare ombre senza sostanza.”
Nel 1949 gli organizzatori del Nobel per la letteratura non trovano nessuno che lo meriti, nel 1950 lo attribuiscono a William Faulkner ma computandolo nell’anno precedente. Il suo discorso al banchetto: “Il premio è stato assegnato al mio lavoro, il lavoro di una vita nell’agonia e nello spirito umano…” Parla di compassione, pietà, della dovuta eguaglianza tra le razze. La buona scrittura sgorga dai “problemi del cuore in conflitto con se stesso.”
Il suo rapporto con l’America? Nei risvolti di un racconto rinveniamo che la paragona a “Il paradiso perduto” di Milton! Protesta che i muri delle case sono stati sostituiti dalle vetrate dei grattacieli, un danno alla privacy.
Immaginiamo William Faulkner che sguaina la sciabola del bisnonno, è la lama della battaglia di Bull Run, contro il vorace progresso del Nord. Il vessillo con la croce di sant’Andrea che sventola è la bandiera del generale Robert E. Lee. Questo, il fascino intrigante che avvolge i perdenti mai vinti.
Uno dei tanti scrittori americani che intingevano la penna nell’alcol e non nell’inchiostro della scrittura superba… Raccontava di delinquenti, sfruttate, violenze, poveracci…Un’America certo vera, quella degli ubriaconi come lui, dei perdenti, ma non certo l’unica e sicuramente divorziata dal comune sentire americano, teso all’insù, a migliorare, a crescere, nonostante mille contraddizioni…