Si potrebbe supporre che sradicare le parole dalla loro originaria costellazione sonora possa depotenziarle, privarle dello sfondo sorgivo. Eppure la silloge Vivo e invisibile del poeta Alessandro Camilletti che raccoglie i testi del progetto musicale Psycho Kinder, smentisce siffatta ipotesi a tal punto che, viceversa, leggendo i versi dell’artista marchigiano si esperisce intimamentela loro aria primigenia, la loro anima. La raccolta, pubblicata nel 2023 da peQuod e introdotta da Giampiero Neri, verso dopo verso eleva il lettore alla dimensione metafisica svincolandosi dalla consueta debolezza del pensiero contemporaneo e dalla nichilistica autoreferenzialità che spesso sorregge il poetare postmoderno. Lo stile di Camilletti è minimalista, privo di altisonante retorica, essenziale – e sono proprio la semplicità ieratica del testo e l’apollineo incedere dei lemmi che iniziano il fruitore all’impalpabile celebrando con sottilissima maestria la sapienza antica e l’immortale filosofia di Pitagora, Eraclito, Parmenide ed Empedocle.
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Tra i versi, a mo’ di schiavi, trascinano i più catene di illusioni, mail poeta, scriba di un dio nascosto, si arrampica all’immobile –anabasi platonica verso la luce indicibile – esibendo il “conflitto dell’invisibile”, il suo darsi nuvoloso, il suo rilucente ritrarsi. Presenziano silenti in scrigni di laconiche parole Plotino e Schopenhauer nonché, nel non-nascondimento dell’Essere, Martin Heidegger, talora severinianamente oltrepassato mediante il depotenziamento della differenza ontologica tra Essere ed ente. Se infatti la scissione degli enti e la dialettica nascita-morte non possano essere negate, il dissolvimento delle cose non è visibile essendo piuttosto gli essenti in ogni frammento ciò che sono; l’esistenza è sì or dunque “fugace danza tra nascita e lutto”, ma si può aspirare in un “istante” alla “totalità paralizzante” in cui l’Essere non è mai precisamente niente e il divenire scorre senza scorrere rimandando, tra l’altro, alla possibilità della reincarnazione – “finale senza inizio”. Il raccoglimento dell’anima è raro nel vorticoso “caos dell’ecumene” e il poeta – vivo e invisibile – allontana interiormente, come l’anarca jüngeriano, l’inevitabile disordine mondano. Riecheggia nel suo pontificare la saggezza delfica che, financo nello stile, forgia il momento con misura: “conosci te stesso” e “niente di troppo”:
“Unica è la tua via
non confonderla con le altre,
evita gli assembramenti
i covi dell’impostura
non seguire
e non creare seguaci”
Il tentativo infinito di cesellare l’indifferenziato destina il cantore al suo inimitabile percorso ermeneutico – “uno per me è diecimila, se è il migliore”, ammoniva l’Oscuro. E quantunque le parole siano sempre musicalmente cadenzate e le impercettibili rime indirizzino ordinatamente le emozioni, dal sostrato affiorano a voce alta anche il rifiuto iconoclastico e la demolizione avanguardistica: via dai “mucchi sparsi di pedoni”, dal massacro che li aspetta; e via dal “calco del vuoto che chiamano moda”,dalla libertà ritagliata, dall’artefatta concessione allo svago, dalle riunioni, dalle assemblee, dalle decisioni. L’uomo eccezionale, tra tutti Nietzsche, è “porta aperta” proprio perché è “incastro mancato”, “vittima designata”, “ospite indesiderato”, “coperta di un malato”. Incompreso è il grande – “aquila con le ali di catrame costretta a mangiare con le galline”. La spettacolare società dell’orrore impedisce di crescere nell’errore, è gabbia d’acciaio che imprigiona, standardizza, protocolla, condanna alla massificazione – e si diventa “un altro che ti porta al guinzaglio”.Bisogna allora condividere le radici più che i frutti, puntare all’orizzonte, dare senza donare, vivere della eterna fioritura della φύσις in cui “questo sei tu” affinché si esca dalla storia che appare illusoria, come un susseguirsi di immagini che fluendo riflettono l’immoto. Procedendo da questo posizionamento interiore il poeta mette in scena la grazia della sfuggevole natura che si appalesa nel disordine degli alberi tratteggiando un “disegno infantile” mentre franano le categorie definitorie nelle immaginifiche metafore dell’epòpto, osservatore dell’Altrove. Così, nella estatica disgregazione dell’individualità, “siamo uno noi due”. Dalle “interiora del mondo”, tra rovine di “glorie che non furono”, eruttano in scarlatti “gesti millenari” “frammenti di futuro” e ogni particolare, scorto sub specie aeternitatis, si fa figura di una misteriosa opera universale che si mostra nell’ambiguità del sogno esistenziale di cui la volontà umana circoscrive il perimetro. La poesia è pertanto immersione nell’archè, frequentazione della “dimora necessaria”, visione, talvolta allucinazione, vaticinio metafisico che traduce, nell’immagine rallentante, il fatale“tramonto dell’evidente”. Nauseante è invece il robotico attimo che solo l’occhio del poeta contestualizza da lontano, lui che intesse l’insieme. Essere solitari “segugi della propria sorte” per custodire l’intuizione veritativa che “ci spoglia di tutto”, ecco la salvezza, l’epistrophè iniziatica del viandante – sottrazione d’abbaglio, teologia negativa, essenza nell’assenza. È l’Indistinto che patrocina la trasmutazione, è l’attimo senza durata che dischiude all’eternità, l’incompiutezza alla perfezione. Bisogna(a)scendere al livello del rumore elementare, prendere e lasciare l’istante, intanto che “all’ombra di metafore” si avvicendano nel cerchio dell’apparire disvelanti le parole. Si arresta a un tratto la creazione. Si veste il verso di silenziosità – “la legna è accatastata, spenta è la fiamma”.