Il dibattito gravitante a vari livelli intorno al termine democrazia si è talvolta soffermato nel tempo, aldilà di un costante richiamo a un significato elogiativo più o meno unanimemente riconosciuto, su accezioni di ordine procedurale – il rispetto di regole del gioco predefinite – e sostanziale, vale a dire sull’esigenza di garantire i diritti di libertà e uguaglianza.
Utilizzando un’efficace definizione del politologo Giovanni Sartori, essa indica un insieme di ideali e un sistema politico che riflettono lo sviluppo della civiltà occidentale ma anche una sorta di evaporazione concettuale perché restituiscono un’immagine di debolezza intrinseca, in quanto non immediatamente identificabili – a differenza del liberalismo e del socialismo – con una corrente di pensiero robusta e specifica.
Nell’attuale contesto di malcontento generalizzato e diffuso verso le istituzioni democratiche, che trae alimento dalla smarrita capacità di selezione dei partiti e si manifesta non di rado come forma di reazione alle disfunzioni provocate dalla mediocrità delle classi dirigenti, un’analisi abbastanza interessante – critica, ma un po’ carente in fase propositiva – è rintracciabile nel saggio del filosofo politico statunitense Jason Brennan “Contro la democrazia”, tradotto nella versione italiana dalla Luiss University Press.
I limiti della democrazia
Sgomberando immediatamente il campo da equivoci, l’autore chiarisce di non voler contestare la democrazia rappresentativa e deliberativa bensì le sue modalità di funzionamento: l’estensione indiscriminata promossa dal suffragio universale, infatti, consente a elettori in gran parte disinteressati alla politica di attribuire poteri decisionali rilevanti a una minoranza di eletti per lo più incompetenti e corrotti, confermando una “legge” non scritta che individua un rapporto di proporzionalità diretta tra il livello qualitativo degli uni e degli altri.
Il catalogo
Lungi dallo svolgere funzioni educative e nobilitanti, le principali forme di partecipazione – le libertà politiche del diritto di voto e di candidatura alle cariche pubbliche – tendono a rendere i cittadini litigiosi, apatici e parziali. Essi vengono catalogati in forme ideal-tipiche singolari: hobbit, gli astenuti che in genere non approfondiscono le proprie conoscenze perché scarsamente incentivati a farlo; hooligan, tifosi sfegatati di una parte politica disposti ad acquisire le sole informazioni a conferma dei propri convincimenti pregressi; vulcaniani, gli unici razionali e imparziali ma nettamente minoritari rispetto ai primi due gruppi.
Carenze cognitive inducono, dunque, i cittadini a deviare da scelte ragionate, a codificare le informazioni in maniera distorta e a compiere errori sistematici ma non a votare in modo casuale, prediligendo di massima posizioni conservatrici, lasciandosi guidare nel processo di formazione delle opinioni dalle trappole innescate dagli effetti di framing. Suscita d’altro canto qualche interrogativo l’idea secondo la quale essi sarebbero orientati verso ciò che percepiscono come interesse nazionale, determinata probabilmente dal fatto che il paradigma di riferimento dominante – se non esclusivo – della narrazione è quello degli Stati Uniti d’America.
Concepita come valore strumentale attraverso il richiamo alla metafora del martello, la democrazia funziona abbastanza bene e produce risultati relativamente apprezzabili perché, una volta concluse le consultazioni elettorali, spesso e volentieri non segue le indicazioni ricevute dalle urne. L’attribuzione del potere ai grandi gruppi e non agli individui impedisce ai secondi di influire sulla tenuta degli esecutivi e svilisce l’importanza della rivendicazione del diritto di voto.
La confutazione della teoria del consenso della legittimità politica (“il cittadino è soggetto a leggi coercitive indipendentemente da come vota e anche se si astiene”) rafforza, inoltre, il pensiero che la generale mancanza di condizioni per un consenso informato consegna di fatto la maggior parte del corpo elettorale alla manipolazione. Contrariamente a quanto affermato da John Rawls, le libertà politiche non garantiscono dunque uno status più elevato rispetto alle altre: per esercitare il senso di giustizia è più decisivo il consolidamento delle libertà di espressione e di associazione.
Allo stesso tempo, gli argomenti semiotici a favore della democrazia – tra i quali l’attribuzione a ciascun cittadino di un egual potere partendo dalla premessa che tutti abbiano lo stesso valore morale fondamentale – vengono respinti, argomentando che il giudizio di alcune persone su determinate tematiche sia inferiore rispetto a quello di altri. Sotto quest’ultimo aspetto, l’opinione che l’uguaglianza della titolarità dell’elettorato attivo e quella delle capacità sia un’idea smentita dalla produzione giuridica viene appoggiata nell’introduzione dal giurista Sabino Cassese, convinto che non tutti siano ugualmente edotti delle esigenze di gestione dell’interesse comune.
L’epistocrazia come valida alternativa?
L’associazione della dignità umana al potere politico è un fatto contingente di tipo psicologico o culturale; in altri termini la netta svalutazione del voto, inespressivo e privo di qualsiasi valore simbolico, accrediterebbe la proposta – peraltro non nuova – di accomunarlo ai diritti che prevedono una licenza anziché a criteri discriminatori come quello dell’età.
Vietare a cittadini politicamente sprovveduti di esercitare autorità sugli altri è il presupposto che indirizza l’analisi su due terreni scivolosi: l’enunciazione del principio di competenza e l’introduzione dell’epistocrazia quale forma di governo fondata de iure sulla conoscenza. Le sue principali varianti – suffragio ristretto o per sorteggio, voto plurimo o soppesato – prevedono che i cittadini siano sottoposti a un test delle conoscenze politiche di base oppure formati in tal senso, esponendola sia ad accuse di elitismo sia ad obiezioni di carattere demografico, che evidenziano una presunta concentrazione di potere sui gruppi sociali generalmente più avvantaggiati e istruiti (ricchi, bianchi e uomini).
Nonostante un funzionamento sorprendente che contraddice in parte le premesse, le democrazie – pur proteggendo le libertà civili ed economiche meglio di altri regimi politici e pur tendendo a non farsi guerre tra loro – sono destinate ad essere soppiantate dalle epistocrazie: il passaggio, ripetuto quasi ossessivamente più volte, è in realtà poco convincente e controverso.
L’autore da un lato dimostra la facilità d’individuare alcune patologie della democrazia, dall’altro è costretto ad ammettere la complessità di progettare istituzioni migliori. Spostandosi in modo più o meno celato verso un obiettivo meno ambizioso di quello dichiarato si sofferma, quindi, su alcuni fattori di mediazione (l’ammissione di forme di contestazione politica, un sistema di pesi e contrappesi per prevenire l’instabilità, la tendenza dei politici a perseguire compromessi e la conseguente gradualità dei cambiamenti rispetto allo status quo) già operativi come forme di correzione, basti pensare all’esempio relativo alla Corte Suprema statunitense che può dichiarare incostituzionali gli atti deliberati da organi democratici.
Una concezione minimalista della politica
Brennan sottoscrive in conclusione che è pericoloso sperimentare forme alternative alla democrazia (sistema sociale non pienamente giusto), preferendo dichiararsi favorevole a percorsi di tipo riformistico.
A modesto parere di chi scrive uno sguardo complessivo e attento caratterizza l’obiettivo principale del suo lavoro nel tentativo di ridimensionare in modo drastico la sfera d’azione della politica, i cui processi decisionali – contraddistinti da un ventaglio di opzioni limitate e spesso imposte con la violenza – tendono ad attivare dinamiche conflittuali che rendono i cittadini nemici situazionali, vale a dire propensi ad atteggiamenti tribali e di reciproca diffidenza.
Se lascia alquanto perplessi il rilievo espresso nel saggio introduttivo da Raffaele De Mucci secondo il quale l’autore si porrebbe addirittura “sul crinale scivoloso del populismo”, vero è al contrario che questi avalla senza troppe riserve mentali e in perfetto stile anglosassone forme tecnocratiche piuttosto spinte che in generale già hanno fornito, almeno oltreoceano, risultati tutt’altro che esaltanti.
Segnalo che in Italia l’associazione Epistocrazia (epistocrazia.it) con il suo giornale L’Epistocratico (epistocratico.it) svolge attività di studio sui dati per misurare l’impreparazione e la manipolabilita’ degli elettori e organizza eventi / dibattiti per trovare possibili soluzioni, non tanto per eliminare il suffragio universale ma più per diffondere la cultura e aumentare la partecipazione consapevole. I dati sulla preparazione in Italia e nel mondo di eletti ed elettori e gli effetti cognitivi dell’utilizzo dei social mi preoccupano molto per il futuro della democrazia. Brennan non è contro la democrazia ma ha il fine di tutelare, grazie (speriamo in un futuro prossimo) grazie all’epistocrazia.