Les sept couleurs, pubblicato in Francia nel 1939, è un romanzo d’amore che affresca, spesso raggiungendo alte vette di poesia, gli anni ’20 e ’30 sviscerandone tragedie e illusioni, dischiudendone il cuore. In questa presentazione si fa riferimento all’edizione italiana del 1985 proposta da Ciarrapico Editore. Si tratta di un’edizione preziosa non solo per la traduzione di Orsola Nemi, ma anche per l’introduzione vergata dall’ineguagliabile Stenio Solinas.
Patrizio e Caterina
In I sette colori Robert Brasillach racconta la storia di Patrizio e Caterina, due studenti conosciutisi per caso durante l’esame di maturità che si incontrano in un giorno di sole presso Bois de Boulogne, un incantevole parco di Parigi, nel 1926. In quell’estate pregna di luce e totalizzanti emozioni i due ragazzi – lui vent’anni, lei diciotto – si approssimano impercettibilmente sino a sigillare un sodalizio dei sensi che, malgrado i travagli della relazione, resterà puro nonché in qualche modo nobilmente ingenuo. E se parafrasando Georg Simmel la sorgente interna della vita ci inonda maggiormente quando si è più vicini all’origine, è vero anche che con altrettanta forza le sue acque ci travolgono allorquando ci perdiamo nei ricordi come in un oceano di preoccupazioni, miraggi e disinganni. Così, nonostante a un certo punto il giovane Patrizio scelga di emigrare verso l’Italia e Caterina resti sola col cuore spezzato in quell’ambiguo e ammaliante acquarello che è la Parigi degli anni Venti, l’avvicinamento delle loro anime non vacillerà – quantunque nel frattempo la giovane, trovatasi tra fuochi di diversa gradazione, sposi François Courtet e Patrizio, dopo una formativa esperienza nella Legione Straniera, si stabilizzi in Germania. Tra due fuochi, si diceva: Patrizio è percepito dalla giovane come un incosciente avventuriero delle emozioni, come una sorta di bohémien antiborghese, come un eterno adolescente o, che è lo stesso, come uno che non trasmette sicurezza, che non ha una visione chiara del futuro, ma che, anzi, alla misura preferisce l’abisso purpureo e forse anche il giallo apollineo del sole, ma di un sole che abbaglia occultando gli interstizi che rendono la vita tediosa. Dal canto suo François è anch’egli un uomo generoso e con un passato difficile ma, benché attratto dalla vita e capace di scelte coraggiose, è giudizioso e, se non infiamma i cuori indicando sogni impossibili, fonda nell’altrui animo la sicurezza. Tra la solare oscurità di Patrizio e il ragionevole amore di François la scelta formale cadrà sul secondo non avendo d’altronde Caterina nulla da scegliere rispetto a Patrizio essendo stato il loro un incontro fatale che trascende la volontà e che si conferma fondamento più saldo della libertà, del sì e del no. Negli anni della separazione, contrassegnati da un carteggio in cui si avvertono gradualmente le metamorfosi delle emozioni cagionate dalla lontananza dei corpi e da giudizi via via sempre più recisi, Patrizio si innamora dell’Italia di cui in Francia hanno fatto uno spauracchio e degli italiani – “un popolo amabile che vuole divenire forte” – e desidera che Caterina lo raggiunga. Il protagonista vive con entusiasmo il clima politico di Firenze e dopo, con sentimenti ancora più vividi, si reca in Germania dove è attratto dalle bandiere alte cinque piani, dai fiori che “non impediscono altre realtà più minacciose” e soprattutto dalle “cattedrali di luce” che nella notte accoglievano liturgicamente i comizi del Führer. Si tratta probabilmente della impressione che lo scrittore ebbe quando nel 1937 si recò in qualità di giornalista al Congresso di Norimberga scrivendo poi il resoconto Cent heures chez Hitler. In Germania Patrizio incontra una compagna – la dolce Lisbeth che ha un posto piccolo nella sua vita, ma sicuro. E in fondo il destino del giovane è simmetrico a quello di Caterina essendosi entrambi arresi a un rapporto pressoché normale, con sentimento, ma poco vigoroso; con certezze e sapori concreti, ma con poca poesia e, soprattutto nel caso di Patrizio, a un amore quasi senza amore. In verità i due si rivedranno molti anni dopo ancora una volta, sempre a Parigi, e lo stesso amore li indurrà nuovamente – ma per poche ore – a tralasciare la paura dell’amore. Ma anche questa volta non sarà abbastanza e l’orologio del destino riprenderà il suo meccanico corso.
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La trama qui succintamente ricordata è ricca di ingegnosi colpi di scena e di destinali coincidenze ed è elaborata dallo scrittore attraverso la fusione di vari generi letterari. Da questo esperimento quasi avanguardistico deriva anche il titolo del libro: Sette colori, uno per ogni fase, per ogni aria, associato ognuno a momenti, generi, personaggi diversi. Come ricorda Solinas, Brasillach rivela tutta la sua straordinaria capacità nel voler sorpassare il romanzo tradizionale insinuandosi con la pratica nel dibattito sulla crisi del romanzo moderno. Il racconto si srotola infatti attraverso un narratore ignoto e onnisciente, ma contiene anche le lettere che si scambiano i due innamorati, le confessioni affidate al diario di Patrizio, riflessioni generali, il dialogo diretto, i documenti e gli articoli sulla guerra civile spagnola, il monologo finale di Caterina. E, come fossero monadi, ognuno di questi generi incarna lo stesso amore universale da un unico punto di vista, senza farsi penetrare da fuori, riflettendo diversamente l’identico in un intarsio perfetto che assomiglia tanto alla vita – così come lo scrittore ha le sembianze di un piccolo, impertinente, quasi umano dio. La magia di questo ladro di fuoco sta nella delicatezza, nella naturalezza con la quale l’afflato politico si combina con le vicende troppo umane di una coppia qualunque. L’ideologia diventa parte della vita e i personaggi – specialmente Patrizio ma anche François – sono comparse all’interno di un’unica totalizzante scenografia. Il tempo della storia trascorre sempre lungo lo stesso fiume emozionale sia quando i personaggi riflettono sulla vita, sul tempo, sul destino e sull’amore sia quando i fascismi – soprattutto italiano, tedesco e spagnolo – sono colti nel loro aspetto vitalistico e rivoluzionario come “poesia del XX secolo” e, en passant, come il male dello stesso – sia chiaro, un male dal fascino quasi mefistofelico, irresistibile. Appaiono dense e tragicamente premonitrici le pagine in cui Patrizio, sentendo su di sé il passaggio dall’adolescenza alla età adulta, scrive: “Quelli che muoiono dopo la trentina non sono consolidatori, ma fondatori” perché annunciano il “scintillante esempio della loro vitalità, delle loro conquiste” accennando “qualche strada al lume della loro gioventù sempre presente”. Essi, scrive il poeta, “abbagliano, interpretano, meravigliano”. Per questo Cristo è morto intorno ai trent’anni come Alessandro. Uomini di tal fatta “bruciano la loro vita, talvolta quella altrui, ma danno la fiamma, l’avvenire”. Infatti:
Non si immaginerebbe Alessandro vecchio e saggio, legislatore dell’Oriente: la sua parte sta nel mettere di fronte l’Occidente e l’Oriente. Dopo di che, sbrigatevela voi. Tali sono gli esseri che scompaiono prima delle menomazioni, prima dell’equilibrio, prima della riuscita. Non sono venuti a portare nel mondo la pace, ma la spada.
Una frase che, nota Solinas, si fonde con la vicenda umana di Brasillach, il quale, accusato in carcere di avere “idee nere”, rispose:
Bisogna saper morire giovane. Robert Brasillach a 75 anni che legge con voce tremula le bucoliche greche, mentre riscalda i suoi reumatismi accanto al fuoco. Pensateci sopra. Quale orrore!
E in effetti, benché sarebbe comunque stato meraviglioso sentire il suo parere sul decadente mondo attuale, non è facile immaginarsi un simile esteta da vecchio ed è viceversa più agevole applicargli la sentenza di Menandro secondo cui “muore giovane chi è caro agli dei”. Parole che nuovamente fanno pensare a Patrizio accusato da Caterina di “gioventù” – “come se l’essere giovane – scrive il poeta all’amata – “fosse un pericolo da cui bisogna guardarsi, come se avessi la idrofobia, la rogna. Si vaccini contro la gioventù”.
Le riflessioni che sondano col cuore di un poeta più che di un ideologo il senso profondo di un secolo e della guerra civile europea si amalgamano con altri pezzi di immortale e sconosciuta letteratura, come quando il narratore descrive il giorno in cui Patrizio e Caterina finiscono vestiti nello stesso letto:
Nella vicinanza dei due corpi vestiti v’è qualcosa di magico e di inseparabile dai primi momenti dell’amore: la resistenza, la tentazione, la vergogna, il rimpianto, la speranza si mescolano nella stretta fittizia e provvisoria in cui gli ostacoli lievi simboleggiano le barriere più irriducibili (…). Al di sopra volteggiavano in una nube le loro tentazioni ed essi chiudevano gli occhi ed erano rossi. E così tesi erano per avvicinarsi senza toccarsi, per fondersi senza raggiungersi, più separati da quella poca aria fra loro che dalla spada di purità della leggenda che subitamente, nel medesimo istante, qualcosa in loro si spezzò e (…) non furono più presenti. Patrizio avrebbe spesso pensato che, fosse vissuto anche cento anni (…), mai più avrebbe raggiunto così completamente l’attuazione del sogno maschile come in quei minuti di annientamento totale, in quel possesso di purezza.
Tra leggerezza e serietà
Brasillach adotta il paradosso adeguandosi alle contraddizioni della vita ed è arduo schematizzare le posizioni nettamente per inquadrare un personaggio in una definita tipologia. Le determinazioni sembrano infatti sgretolarsi se fatte reagire con i fatti, i drammi, i ripensamenti dei personaggi. Appare pertanto un po’ strana e meravigliosa l’ultima frazione del romanzo in cui Caterina, aprendo definitivamente il suo cuore al lettore in un simbolico viaggio in treno alla ricerca di François, descrive con femminea delicatezza e sensualità il suo rapporto con i due uomini della sua vita esperendoli quasi in continuità come se fossero l’uno lo specchio dell’altro – quantunque, certo, l’ardimento immaginativo e la passione romantica fosse per Patrizio e François in qualche modo non avesse fatto altro per tutta la vita che inseguirlo, copiarlo pur avendolo nella pratica superato. Per l’alchimia dell’amore in un solo cuore di donna convivono la “tremante leggerezza” di Patrizio e la pesante serietà di François e sembra che, nel turbolento flusso di coscienza, un io trasceso dialoghi con spettri interiori, altre facce di noi stessi giacché, scrive amara Caterina, “soltanto il caso governa la vita e porta i minuti più belli, quelli sui quali non abbiamo potere”. E mentre insieme a Caterina ci lasciamo trasportare sulle rotaie dell’immaginazione, sembra anche a noi che “un lieve lucore di perla cominci a correre rasente il suolo” – è il 1939 e Brasillach non è mai morto.