Dai molti dettagli della personalità umana e politica di Corrado si staglia la serenità, unita alla determinazione e alla competenza, con cui riusciva ad adunare nella sua attività editoriale autori e figure tra i più eterocliti e per certi versi reciprocamente contraddittori, come dimostra ad esempio il libro Ditelo a Sparta (Graphos), dedicato all’aggressione Nato alla Jugoslavia, cui si può aggiungere lo slancio con cui egli, che per dir così si “vantava” di essere d’origine ebraica per parte materna, pubblicava autori quali Garaudy e Faurisson.
A me mai chiese in alcun modo orientamenti politici o filosofici, badando soprattutto al rapporto personale: un rapporto iniziato e concluso per la sua morte nel volgere di soltanto un anno, tra i più intensi che possa auspicare chi ambisca a costruire un’esistenza solida e feconda.
In quell’anno ci si sentiva al telefono almeno due volte al giorno, sempre ripromettendoci di incontrarci scantonando dai rispettivi impicci materiali e sempre procrastinando sine die. Ciò sino a quando Corrado organizzò d’autorità una presentazione del suo libro sulla rivoluzione ungherese a Sampierdarena e mi infilò in locandina, dicendomelo solo a cose fatte. Arrabbiarsi sarebbe stato impossibile e sciocco, ché quello era stato il suo modo per chiedermi di andarlo a trovare, quasi presago della fine prossima: due mesi dopo, infatti, egli sarebbe morto.
Andai a Genova e stemmo insieme quattro giorni. Il pomeriggio della conferenza Corrado era molto mal concio, ché il cancro aveva iniziato a dargli l’assalto mortale; eppure, con grande sorpresa di tutti, parlò per oltre un’ora, senza tentennamenti, con una lucidità e un’energia sconvolgenti per un uomo così gravemente provato, e nel corpo, e altrettanto nella psiche per motivi che sarebbe disdicevole pubblicizzare. D’altro canto, a dire della sua leonina determinazione, scrisse la voluminosa opera sull’impresa ungherese in analoghe condizioni, dando pur vita a un capolavoro, ché, come afferma Nietzsche in Ecce homo, «ciò che è decisivo nasce nonostante tutto».
Ma forse il ricordo più bruciante riguarda una telefonata, successiva a una sua orribile disavventura che rischiò di ucciderlo anzitempo, tra le più dense della mia vita, al termine della quale mi confessò con la voce strozzata: «Possi dirti una cosa? Ma non ti devi risentire. Tu sei il figlio che avrei sempre voluto avere». Poi, salutandomi rapido rapido, riagganciò per non tornare mai più sull’argomento. Detto da un uomo per nulla incline a smancerie e affettazioni, nemmeno nei momenti di più alta debolezza psicofisica, dovette significar molto per lui. Quel momento fu l’epitome – inaspettata – d’un rapporto vero, semplice, schietto eppure alato, di quelli ormai svaporati nel nostro mondo.