Chuck Palahniuk: con lui l’alienazione si impadronisce del quotidiano. E la bontà diventa merce di scambio sociale. Il suo affabulare? Tossico!
Cesare Pavese mette in guardia: prima di incensare la letteratura americana rovistare nell’anagrafe degli autori, nel loro passato generazionale. Il più delle volte si trovano radici della vecchia Europa, con le sue tare caratteriali. E: “Quella mescolanza di sangue mette l’argento vivo nelle vene… Proprio in questa evasione nel sangue rinasce una letteratura che scopre l’America.” Aggiungo che il nostro continente sembra sempre esalare l’ultimo respiro culturale e invece sono vigorosi vagiti trasmessi nelle culle di altri Paesi. O qualche sbadiglio, a seconda delle epoche.
Chi c’è dietro Chuck Palahniuk? L’Ucraina. Quindi nel suo humus, Chuck, ha l’Holodomor, la carestia, lo sterminio per fame imposto da Stalin. Il dramma dell’emigrazione e l’abbandono di usi e costumi, il distacco dalla cellula protettiva antropologica.
Palahniuk è nato nel 1962 a Pasco, città dello stato di Washington. Il suo quadro familiare non è idilliaco, genitori presto divorziati e un nonno che spara, uccide la moglie e si suicida. Dopo una laurea in giornalismo si mette a fare il meccanico e il volontario in una comunità sciagurata di reietti della società, di malati terminali. Sicuramente da qui il letame che concima gagliardamente il suo estro di scrittore quando ha già trent’anni. Dopo i primi consueti rifiuti riesce a pubblicare “Fight Club” e a decretarne il gran successo è il film di David Fincher con Brad Pitt.
Il suo dito puntato è un bisturi che affetta la Società Americana, stigmatizza denuda e deride i destinatari del sogno americano. Li desta di soprassalto e li conduce nei suoi incubi. L’osceno, l’assurdo e l’horror si intrecciano a raggiungono acme così alte che Henry Miller, Céline e Bukowski al paragone sembrano scolaretti pudici. Nelle sue frasi c’è il fuoco ma la costruzione è perfidamente algida. La sua poetica violenta e nichilista come stileè minimalista. Un vomito, un labirinto infinito di concetti irrorati in apparenza a briglia sciolta, da nevrosi, ma che tiene invece sapientemente in pugno e comanda. Lui è Dedalo. E nel suo amore c’è l’autopsia dei corpi, reliquie stuprate. Le lamette non le adopera per depilare. C’è una gara tra gli eventi che avvengononella realtà e quelli immaginati dalla sua mente perversa. La vita èteatro, priva di copioni compiacenti e possibilità di repliche.
Alle volte l’autore crea l’attesa e diventa stucchevole, delude, blandisce, ma lo fa volutamente per prendere in giro il lettore irretito. Si cita Stephen King ma li accomuna solo il piacere per il fantastico. Per l’opera “Cavie” si vagheggia di analogia con il Decamerone, seppure orrido, e Boccaccio ma per lo scrittore toscano la vita è commedia mentre in Palahniuk è peste. A esacerbare e comprovare la sua veemenza si racconta di svenimenti e bisogni organici dei presenti ai reading dei suoi racconti. Specialmente per “Budella” dove imperversa San Vuotabudella con la laida “Pesca delle perle” in piscina.
Nei racconti Palahniuk affronta l’immane schiera di coloro che scrivono. In uno i malati di scrittura sono in colonia, gestiti dal moribondo Whittier, pagano chi li ascolta. In un altro vengono rinchiusi come in gabbie ed hanno soltanto sette minuti per raccontare la loro storia. C’è la rassegna degli scritti mozzati dal tempo implacabile. È meglio il racconto inventato o quello vissuto? “C’è puzza di catarsi”. Si schiavizza cose e persone per tornaconto, si può schiavizzare se stessi? La terapia della parola dei corsi di scrittura. L’agognato contratto editoriale è la beatificazione. Spiacente, i sette minuti sono scaduti.
In “Ninna Nanna” il protagonista è un libro di filastrocche, contiene una nenia africana che, come viene letta, procura la dolce morte di bambini. Ci sarà la caccia al libro e alla sua distruzione. Le favole hanno un potere terribile e bisogna bloccarle!
Il suo libro manifesto è “Soffocare” del 2001. “Se stai per metterti a leggere, evita,” il suo gentile invito nell’incipit. Il giovane Victor Mancini ha la vecchia madre che soffre di Alzheimer ricoverata. Victor dopo aver fallito come studente di medicina di mestiere fa il figurante in un parco dove si ricostruisce un villaggio del 1700. Ha difficoltà a pagare le rette della costosa casa di cura St Anthony e allora escogita un espediente. Si reca nei ristoranti e finge di soffocare per un boccone. “Non respiro più. Balzo in piedi con la bocca spalancata… Chi sarà l’eroe della serata?” Chi lo salverà? Per destare interesse distribuisce calci ai commensali. I salvatori diventeranno come padri per lui. Ad ogni ricorrenza gli invieranno dei soldi. Ha dato il senso della vita a dei simili e loro gliene sono grati. Finalmente un messaggio positivo, c’è un abbraccio sebbene nato da una truffa ed abbia un corollario mercantile. Victor deve rischiare la vita per ricevere affetto.
La dottoressa Paige Marshall propone una guarigione della madre che viene rifiutata. È l’indicazione che la gente è rassegnata a quel che gli capita, al percorso assegnato, non vuole i miracoli, alternative. Disturbano il loro meschino pascolare. Naturalmente la dottoressa non è dottoressa ma un’altra internata del ricovero eIda, la madre, non è la madre. Questa muore soffocata da un boccone. Avviene la traslazione del fatto fasullo del ragazzo nella realtà a colpire la donna. L’impuro connubio dell’irreale con il reale.
Cinque milioni di libri venduti, si afferma. Qui si impone un discorso a doppio binario su i lettori. Non sono alieni pertanto sono cittadini americani, gli stessi che Palahniuk schernisce. Soggetti e oggetti nel contempo. Anche se deformata nelle pagine si srotola la loro esistenza. Perché accettano? Vittime di masochismo? L’altro riguarda la responsabilità. Sono consenzienti, partecipi alle orripilanti vicende stampate, li si può indiziare di favoreggiamento? In fondo sono da ritenersi complici dei deliri, della esagerata malvagità di Chuck Palahniuk. Della sua disperazione esistenziale: “Si vive e si muore e il resto è solo un’illusione”.