Quando Lev Tolstoj scrisse “Anna Karenina” era reduce dall’immensa polifonia di “Guerra e pace”. Già il destino aveva assunto le movenze di una danza tanto che nel ballo di Natasha e Andreij sui corpi sedotti dei due giovani si intrecciano le due tensioni della letteratura russa: il peccato e il perdono, declinate ora nella sfera privata ora nella malinconia del trapasso epocale dell’aristocrazia. Di balli sono pieni letteratura e cinema: dal filone tolstoijano ne citiamo uno solo, il ballo di Angelica e Don Fabrizio di “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa e di Luchino Visconti. Balli esistenziali, verrebbe da dire, conditi con quell’irrompere della sensualità che ha fatto scrivere a Iréne Némirovsky nel suo “Il ballo” ispirato alle vicende dell’eroina russa
“Un ballo… Mio Dio, era mai possibile che lì, a due passi da lei, ci fosse quella cosa splendida, che lei si immaginava vagamente come un insieme confuso di musica sfrenata, di profumi inebrianti, di abiti spettacolari… Di parole d’amore bisbigliate”.
La vita di Anna Karenina è legata alle volubili giravolte di un ballo, seducente come il vestito scelto per incantare il destino. E il destino è lì, nella bellezza dirompente di Vronskij. Sguardi, desiderio, corpo, sesso, menzogne, tradimento, rancore, gelosia, infelicità, doveri, passione: in sintesi gli elementi che fanno del romanzo di Tolstoj l’epicedio dell’amore e il disgraziato trionfo dell’ipocrisia aristocratica, conditi dall’immancabile direzione etico-religiosa, linfa della tradizione narrativa russa anche nel ventennio 1861-1881, quando il realismo si fermò cauto sulla soglia dell’analisi naturalista. Il suicidio suggella la vicenda tormentata di adultera di Anna Karenina e svela l’incongruenza letteraria con i modelli femminili della letteratura coeva vittime dell’ineluttabile. In Anna di ineluttabile c’è solo l’istinto che la porta prima a gettarsi tra le braccia dell’amante poi sotto un treno. Anna vuole cocciutamente essere libera di vivere il proprio amore a costo di imporre assurdi compromessi a se stessa, all’amante, al marito. Mentre intorno a lei, con un meccanismo narrativo alla Goethe delle “Affinità elettive”, Tolstoj mette in scena altre due coppie, il fratello Stiva e Dolly da una parte e dall’altra Levin e Kitty, moltiplicando per sei l’ormai proverbiale incipit del romanzo. Moltiplicazione che, tuttavia, non incide sulla omofonia della narrazione, come teorizza Michail Bachtin, diretta da un narratore che solo alla fine pare affidare a Levin la deriva moralistica e spirituale contro il gelido opportunismo di Karenin e di Lidija.
Non incide in quella di Tolstoj, piuttosto nella messinscena di Luca De Fusco (adattamento con Gianni Garrera) che ha debuttato la scorsa settimana al Teatro Verga di Catania, “Anna Karenina”.
De Fusco propone un’interpretazione dell’omofonia di Tolstoj così raffinata da creare un testo e uno spettacolo deflagrante. Il regista parcellizza il narrato nelle battute dei personaggi con repentini passaggi, talvolta senza stacco ritmico, dalla prima alla terza persona. L’effetto è l’amplificarsi anche eccessivo della dimensione metatestuale. La scenografia di Marta Crisolimi Malatesta, che ha firmato anche i costumi, sottolinea il dettato drammatico: gli ambienti essenziali e bui, illuminati da sciabolate di luce livida di Gigi Saccomandi, vengono man mano occupati dai personaggi che narrano e si narrano disegnando geometrie – verticali, orizzontali e prismatiche- di ronconiana memoria. Luca Ronconi, l’inventore dello spazio scenico, è la citazione più evidente, perchè “Anna Karenina” di De Fusco è antinaturalista e anticlassica. Anche a costo di insistere sul registro ironico magistralmente interpretato da Stefano Santospago, perfetto nei panni di irriverenza quasi shakesperiana di Stepàn Arkad’ič Oblonskij.
Il tono di commedia, in cui De Fusco relega il tema dell’ipocrisia e del calcolo, incarnati dal burocrate Karenin (Paolo Serra), a declassare l’ambientazione aristocratica in salotto borghese, come se Tolstoj si fosse in qualche modo ibsenizzato quel tanto che basti per far esplodere l’incontinenza sentimentale di Anna Karenina e degli altri personaggi: Dolly(Debora Bernardi), Levin(Francesco Biscione), Kitty (Marika Sokoli) e la stessa Lidija (Irene Tetto). Belle le musiche originali di Ran Bagno.
Galatea Ranzi è una magnifica Anna: si scrive addosso il personaggio, lo fa levitare fino al monologo finale. Qui Ranzi regala al pubblico quasi quindici minuti di potenza espressiva totale. Galatea Ranzi è Anna nel corpo, negli occhi, nei pensieri, nelle parole. L’attrice, non a caso tra le predilette di Ronconi, assorbe su di sé la modernità epica del femminile inventato da Tolstoj e De Fusco. Perché, se è vero che non si potrà più pensare a un’altra Karenina senza Galatea Ranzi, è difficile immaginare un’altra messinscena senza questa di De Fusco. Contaminazione è la parola chiave. Sopra un velo nero calato davanti alla scena irrompe il cinema, come nel film omonimo di John Wright del 2012 irrompeva il teatro: c’è forse nel dramma di De Fusco qualche debito a quel film così straniante. Sulla buia e trasparente quarta parete vengono proiettate le scene cruciali del romanzo: il primo sguardo e l’amplesso tra Anna e Vronskj (Giacinto Palmarini), il ballo, la tormenta di neve e le ultime parole di Anna.
L’opera di De Fusco culmina nella maestosità del treno in scena che sfracella Anna. Gli attori, anche per gli applausi, restano al di qua del velo come a non voler uscire dalla finzione. Almeno così è bello pensare.