Dylan Thomas: “Contengo in me una bestia, un angelo e un pazzo”. E al padre morente: “Non andartene docile in quella buona notte. Infuria, infuria contro il morire della luce”.
Dylan Thomas è nato nel 1914 a Swansea nel Galles e a Laugharne ha trascorso gran parte dei suoi anni. Una cittadina dove tuttora i turisti possono visitare la sua boathouse, un capanno a strapiombo sul mare. Fare la foto accanto alla sua statua con lui che li attende seduto e poi sciamare tra le rovine del castello e infine alla distilleria per gli assaggi.
A vent’anni con le “Diciotto Poesie” è già un cigno dalle ali mozze e il suo delirio che contiene echi di William Blake, il suoimago furioso, presenta la Nuova Apocalisse. “E la morte non avrà più dominio. I morti nudi saranno una cosa… Ai gomiti e ai piedi essi avranno le stelle.” I tentacoli delle sue visioni si estenderanno, future propaggini, alla Beat Generation: Ferlinghetti, Burroughs. Per la giovane età emula Rimbaud con la sua stagione all’inferno. Dai critici entusiasti sarà schedato neoromantico.
Un critico americano scrive: “Per lui l’ispirazione poetica era scoprirsi le mani insanguinate e gridare a squarciagola.” Esasperazione, allucinazione, gli espedienti usati per la ricerca di una purezza priva della contaminazione del poeta. Il conflitto delle immagini che galleggiano nell’inconscio e affiorano. In fondo questa è la vita: il dolore, l’amore la morte. Senza alcun ordine, non sappiamo la cronologia della somministrazione. E l’avvicendarsi nella natura contiene la fine. “L’inizio del bulbo…la primavera lo condanna!” Il mistero della carne e del pane: “Questo pane che spezzo era una volta avena… Tu bevi il mio vino, tu addenti il mio pane.” È Cristo? È la carne del Cristo? Gioca con gli opposti, i contrari; ci sono metafore oscure avvampate dai sensi. È volutamente criptico e ci rende partecipi, complici convinti di un qualcosa che forse non esiste. Le sue spiegazioni: “Lascio che le immagini cozzino insieme. Ciascuna immagine racchiude in sé il germe della propria distruzione. Il germe centrale è distruttivo e costruttivo.”
Il surrealismo lo preserva da Marx e Freud che spadroneggiano il secolo. Da Marx, che impoverisce tutto con la monetizzazione dei sentimenti e da Freud, che scruta con la lente il piacere a cercare la perversione, la malattia. Per Dylan peccato sono le inibizioni imposte dalla morale. Lui si fa bardo celtico, usa lo scudo dei costumi ancestrali. Si attacca alle pietre del castello mute testimoni delle saghe e, imperturbabile prosegue nelle sue estasi dionisiache incurante dei bombardamenti della Lutwaffe. Immerso nel suo panteismo gotico è estraneo alle macerie che gli ostacolano il passo, agli uomini che si macellano. Il rivolo di lava incandescente che scaturisce da lui annienta l’evento che accade.
Nel 1936 a Londra si svolge la Mostra Internazionale del Surrealismo con illustri personaggi: Breton, Dalì, Eluard. Dylan,sebbene incerto, ne varca la soglia. Negli anni a seguire lavora negli studi della BBC, compone sceneggiature cinematografiche, radiofoniche e beve, beve.
Dopo una corte epistolare nel 1937 sposa una focosa irlandese: Caitlin Macnamara che canta e danza. Presto il rapporto diventa burrascoso, ma il legame è tenace, il suo collante è l’alcol. La sposa vive un plagio nella sua estenuante rincorsa ai tradimenti, alle sbronze del marito. Caitlin è indomita e ci mette del suo nel primeggiare. Cerca di imbrigliarlo ma invano. Lui le sfugge e lei si adira. Lui è suo ma anche di tutti e nessuno, come sono loro, quelle creature astrali venute da mondi lontani. Per Dylan l’alcolismo è l’uscita di salvezza da quell’imbroglio dove è capitato per errore, la frode che chiamano vita. Un indumento stretto che lo soffoca. Caitlin odia quell’efebo dissoluto perché lo ama estremamente. Anche lei è un’accanita bevitrice, trascorrono le giornate a tracannare liquori.
Dylan sperpera il denaro, un diluvio di bollette da pagare, è sommerso dai debiti, la famiglia quasi in miseria. Batte cassa a Eliot che è occupato a sistemare la moglie Vivienne uscita di senno. Ciò non toglie che disprezzi i versi di Eliot come colti e intellettuali. Ai suoi rimbrotti si definisce un gallese ubriacone come d’altronde lo etichetta, malevolo, Papini.
Nel 1947 è in Italia ma Milano è un forno, a San Michele di Pagana troppi bambini e a Roma c’è il brutto mondo del cinema. È stufo delle colline di Firenze e di bere Chianti. Solo l’isola d’Elba gli piace: “Fortunato Napoleone!” Gli è nemico il caldo afoso. Nel 1954 raccoglie il Prix Italia con il dramma teatrale radiofonico “Sotto il bosco di latte”.
Nelle cineteche Rai esiste un cimelio prezioso, c’è un Montale canuto che racconta l’incontro con Dylan. Questi, entrato in casa si era infilato in un armadio e non voleva più uscirne. Era ubriaco.
Nel 1953 Dylan è a New York impegnato nei suoi recital, alle volte impacciati o sospesi perché è alticcio. Questo piccolo uomograssoccio cattura e imprigiona nella sua magia il pubblico che si commuove, si emoziona. Nella nostra mente sorge spontanea lasua trasfigurazione con la Amy Winehouse di anni dopo, sul palco ed egualmente traballante ed ebbra.
Dylan finisce in coma etilico. Caitlin si precipita da lui: “Dov’è quello stronzo?” e poi: “È ancora vivo quel porco fottuto?” Lui è in agonia. La moglie scaccia dal capezzale una giovane donna, forse un’amante. Un litigio furibondo, la devono sedare, si addormenta. Si insinua che una iniezione di morfina fatta per fermare il delirium tremens sia stata fatale al poeta. Il responso dell’autopsia sconcerta: malgrado il suo gran bere e quanto romanzato la sua fine fu dovuta a una polmonite e si accertò un grosso edema al cervello. Mi dilungo sulla sua passione perché è una sua poesia, l’ultima. Dylan Thomas ha trentanove anni.
La vedova Caitlin si metterà con un siciliano, un aiuto regista, e si sposterà con i figli a Catania. Affida ai microfoni promesse di fedeltà e sobrietà. Non dimentica il defunto: “O Dio oh Dylan, deve fare freddo là sotto. Se potessi portarti una ciotola del tuo pane latte e sale che ti bevevi la notte, per scaldarti.” E scriverà di farsi seppellire: “Accanto al mio poeta, il mio unico immenso amore”.
Naturalmente si produce un film, Edge the love nel 2012, una parodia asfittica della reale convivenza della coppia Thomas. Un approccio ruffiano.
A togliere la polvere dei 70anni c’è Skintrade, titolo di una canzone dei Duran Duran. Bob Dylan conferma e poi nega di aver preso il suo nome. Imperversa il personaggio dei fumetti Dylan Dog. E nel 2018 figli, figliastri e mogli finiscono in tribunale per una contesa ereditaria. Si accusano di deleghe ballerine, truffa e circonvenzione d’incapace. Si disputano un trust di diritti d’autore di 100mila sterline al mese e Dylan era stato sempremaledettamente squattrinato!
L’enigmatico Dylan Thomas è ancora qui. I poeti non vanno via, sono tra noi. Sono nelle porte sbattute, nello sciabordio ora suadente ora lamentoso del mare, nel fruscio delle robinie e sono beffardi, ti guardano e sogghignano: tu sei un povero, misero umano. Loro in duello con quell’esistenza che fottono. Silvia Plath infila la testa nel forno, Cesare Pavese festeggia con il sonnifero, Amelia Rosselli vola dalla finestra e tanti altri… Sono oltre la vita, oltre la morte. Ridono dell’abbandono, del lasciarci soli. E altezzosi ci commiserano.