Era diritto, magro, con una bella testa giovane, dall’intelligenza penetrante – ovviamente un’anima perduta. Così il poeta americano William Carlos Williams descrive Emanuel Carnevali. Gli fa eco lo scrittore Sherwood Anderson notando come chi lo incontrasse sentisse un groppo in gola giacché – a dispetto della bellezza e del fascino fragile – si percepiva che il suo cammino avrebbe avuto presto un compimento: la distruzione. È certo questo uno degli aspetti che ci avvicinano a un autore autenticamente segnato dalla maledizione. Se si aggiunge che per tanto tempo di Carnevali in Italia si seppe ben poco e che morì giovane, strozzato da un boccone di pane, malato e quasi folle come i grandi, neri angeli della poesia, allora l’attrazione si fa più forte, l’aura ci risucchia – il primo dio si mostra.
Vita
Manuel – o Emanuel o Em o Manolo – nasce a Firenze nel 1897 quando il padre Tullio, ragioniere in prefettura, ha già lasciato la moglie Matilde Piano. Il giovane vive in povertà con la mamma morfinomane che talvolta, per disperazione, lo picchia fino al sangue; con Em e Matilde convivono la zia Melania e i suoi due figli. La famiglia si sposta prima a Pistoia, poi a Biella dove, quando Em ha solo nove anni, Matilde muore di tetano:
Mater dolorosa, tu hai sofferto abbastanza per guadagnarti non uno, ma sei paradisi. Madre se la terra si potesse spremere come un limone, ne verrebbe fuori dolore e dolore e dolore.
Il bambino è accolto per qualche tempo dalla zia che presto trapassa a causa di un cancro all’utero; ritorna così a Bologna e, grazie a una borsa di studio, entra nel Collegio Marco Foscarini di Venezia. A quanto pare qui si innamora platonicamente di un compagno, ma le cose non vanno come spera e, forse anche a causa di una crisi nervosa, viene espulso dal collegio; è di nuovo a Bologna dove frequenta l’Istituto Tecnico Pier Crescenzi, seguito dallo scrittore Adolfo Albertazzi. Le continue liti familiari gli fanno maturare l’idea di emigrare in America e il padre reagisce con un glaciale: a nemico che fugge ponti d’oro. La frase conferma il sentire del giovane: ero io il nemico di quella grossa bestia. Il padre infatti sarebbe stato l’uomo peggiore del mondo, un triste, ghignante, malvagio mostro. Tra una bighellonata e l’altra, tra stenti, innocenti passioni, letture e soprusi, si arriva alla primavera del 1914; la Belle Époque naviga verso l’abisso, Em ha 16 anni e ancora solo un sogno: l’America. Così parte da Genova per New York lasciando una terra alla quale – annota – non aveva dato nulla e che non gli aveva dato nulla. Nell’aprile del fatidico anno è nella Grande Mela. I grattacieli sono ai suoi occhi nient’altro che enormi, futili scatole e New York è una terribile rete di scale di sicurezza – New York, questo sogno di chi non sogna, il rifugio di chi non ha casa, questa città impossibile. Negli States svolgerà tanti lavori – tra cui lavapiatti e spalatore di neve – venendo puntualmente licenziato. Soffre la fame abitando in camere ammobiliate e frequentando reietti, prostitute, immigrati senza un soldo. Si convince di essere un poeta, ambisce al successo, è geloso di chi ce l’ha, ma non ama i compromessi; vuole farsi notare, però spesso sta in disparte, preferisce i sobborghi ai salotti, la sua passione è talmente forte da essere eccessiva, violenta. Em cammina in modo strano – disordinato, trascurato, indolente – ha un’aria trasognata, malinconica e un viso imbronciato che si addolcisce nel corso della giornata – la faccia è romantica al di là di ogni speranza. A Manolo piace il bianco ma – scriverà nel racconto Melania P. – ci vuole poco perché il bianco svanisca: basta uno schiaffo e il viso diventa rosso, basta poco e il bianco diventa nero. Dopo vari rifiuti la rivista Seven Arts Magazine accetta le sue poesie. Em stringe amicizia con l’aspirante scrittore Louis Grudin che gli fa conoscere vari poeti americani, tra i quali Waldo Frank. Di lì a poco vince un premio promosso dalla rivista di Chicago Poetry ed entra in contatto con la sua direttrice Harriet Monroe, nota protettrice di talenti. Collabora con la newyorkese Others diretta da Alfred Kreymborg. Frequenta poeti e scrittori quali ad esempio Max Eastman e Lola Ridge. È a casa di Lola che conosce William Carlos Williams. La sua irriducibile alterità gli conferisce il coraggio di imporsi come una sorta di nero fustigatore della poesia nordamericana di cui la stessa Others è epifania. Carnevali intende ripulire la poesia da tecnicismi e artifici, da arcaismi e reperti museali, vuole farla uscire dalle biblioteche per renderla vita, periferie, taverne, ghetti. Em svolge anche una importante opera di divulgazione della poesia italiana in America traducendo autori italiani e leggendo le più note riviste come La voce per riportarne lo spirito a New York. Incontra Emilia Valenza, una ragazza di origini piemontesi, la sposa e va ad abitare nel quartiere malfamato di East Side. La sua esistenza rimane precaria, spesso vive della umile occupazione della moglie che, dopo una serie di tradimenti, lascia per raggiungere Chicago, dove stringe amicizia con Carl Sandburg, Sherwood Anderson, Edgar Lee Masters e dove collabora con Harriet Monroe. La poetessa si affeziona a Em che, per circa un anno, sarà codirettore di Poetry. A Chicago si innamora dell’ebrea Annie Glick da cui trae ispirazione per sue liriche. Vive ancora di stenti, ma allo stesso tempo scrive a Papini, Palazzeschi, Prezzolini, Soffici, Linati, all’ammirato Dostoevskij e a Croce, del quale traduce in inglese Breviario di estetica. Conosce anche Ezra Pound che, malgrado alcuni contrasti, gli resterà amico finanziandolo e promuovendo la sua opera. Quando Annie si trasferisce a New York, Emanuel attraversa una profonda crisi. Presto si ammala gravemente di encefalite letargica ed è ricoverato in un ospedale psichiatrico, poi in una casa di cura pagata dai suoi amici. Una volta dimesso, fa fatica a reinserirsi nel giro letterario e decide di abitare in un rifugio di fortuna sulle dune dell’Indiana a contatto con la natura, in estrema solitudine – avrei potuto stringere fra le braccia la bellezza delle stelle e del cielo, il bellissimo cielo nero; camminavo nudo come Dio mi ha fatto sul verde delle dune e sul giallo della sabbia. Si reca poi a Milwaukee e nell’Illinois – sempre più solo, sempre più malato. Vive alla stregua di un vagabondo, lavora come trasportatore di sughero, ma è finita. Nel 1922 – calvo, tremante, incapace di accendersi una sigaretta – rientra in Italia dove rimane, ricoverato presso vari ospedali e cliniche, fino alla morte. Durante il periodo della degenza riceve, tra le altre, le visite di Ernest Walsh, Harriet Monroe, Sherwood Anderson ed Ezra Pound. Continua a collaborare con qualche rivista come This Quarter che ospita la cosiddetta lost generation – i poeti americani esuli in Francia. Nel 1925 Robert McAlmon, recuperando vari contributi dell’autore, pubblica proprio in Francia A Hurried Man, l’unico libro che, se si esclude uno stralcio di Il primo dio del 1931, Em riuscirà a vedere. Prima che all’orizzonte compaiano le oscure nubi del secondo conflitto mondiale, nel 1937 Manuel è ricoverato presso la Clinica Neurologica di Bologna e, come apprendiamo da Luigi Ballerini, da questo punto in avanti nessuno dei suoi amici americani riuscì più ad avere sue notizie. La morte arriva inaspettata l’11 gennaio 1942 a causa del ridicolo incidente sopra menzionato.
La lingua
Carnevali impara velocemente l’inglese leggendo i cartelloni pubblicitari di New York e decide che avrebbe sempre scritto in quella lingua. I critici si sono chiesti perché un autore italiano che aveva assimilato l’inglese da poco e in modo così atipico, avesse eletto proprio quella lingua quale veicolo della sua scrittura. Lo stesso Carnevali in una lettera a Monroe ammette di voler diventare un poeta americano perché aveva ripudiato i modelli italiani di buona letteratura come Carducci e D’Annunzio essendo piuttosto affascinato da scrittori quali Poe, Whitman, Harte, London, Oppenheim e Waldo Frank. A giustificazione di questa predilezione, sentenzia: credo nel verso libero. Eppure nell’inglese di Carnevali emergono un’anarchica anima latina che permea ad esempio anche la poesia dell’altrettanto ribelle ed errabondo Dino Campana nonché il retaggio di una tradizione italiana che, malgrado l’esplicito rifiuto del classicismo, talvolta affiora a livello retorico e nella struttura delle frasi. Si potrebbe forse sostenere che Carnevali scrive in inglese come se stesse scrivendo in italiano e che questo modo di integrare i due idiomi contribuisce a rendere la sua prosa profondamente diversa, viva, rivoluzionaria. La scrittura di Carnevali è influenzata altresì dalla polemicità di Papini, maestro dell’arte della stroncatura, della quale anche Em è sommo interprete come dimostrano vari saggi critici – tra i quali spiccano quelli dedicati a Ezra Pound e ad Arthur Rimbaud. Gabriel C. Millet ricorda come la lingua di Carnevali fosse stata raccolta per strada e come fosse irradiata di una vivacità quasi fiorentinesca e Ballerini aggiunge che essa lascia trasparire tutta la sua clamorosa latinità, e numerosissimi debiti, goffi a volte, ma più spesso strabilianti e fertili, nei riguardi specifici dell’italiano. Più che una riproposizione dell’inglese, suggerisce ancora Millet, si tratta dunque di una lingua adatta alla New York che non esiste, vale a dire all’America trasfigurata nella mente dell’autore, una lingua “periferica” in cui si coagulano suggestioni e influenze opposte e che assomiglia all’universo in cui anche stilisticamente l’autore si rifugia muovendo guerra all’ovattato mondo americano, ai salotti, all’astratto tecnicismo, al sentimentalismo di maniera, all’ottimismo, alla retorica, e all’artificiale – borghese – mercificazione della scrittura.
Il primo dio
Carnevali scrive in inglese anche il romanzo Il primo dio. Il libro, tradotto in italiano dalla sorellastra dell’autore Maria Pina Carnevali, è pubblicato da Adelphi nel 1978. Il volume comprende, tra l’altro, tre racconti, varie poesie, alcuni saggi critici, le testimonianze degli scrittori americani amici del poeta e una interessante postfazione di Luigi Ballerini. Nella prima parte del romanzo Carnevali racconta gli anni bianchi della sua infanzia in cui, malgrado l’estremo disagio, la luce custodisce ancora i sogni tra vari affetti femminili – mamma, zia, prime piccole amiche. La successiva adolescenza assume invece un incarnato rosa: il bianco inizia a inscurirsi, la vita a bastonare di più, i sogni a diventare utopie, ma il sole, un certo essenziale affetto sono ancora sullo sfondo. In America inizia il periodo nero della povertà sfacciata, che se ne frega di tutto e tutti. Lo spazio del sentire è ora New York, miserabile bagascia, Paradiso e Inferno, piena di cimici, spietata con gli infelici, New York la città del lavoro – incubo dei perseguitati; povertà; angoscia; questa cosa che ti succhia il sangue; questa morte che ti lavora a poco a poco, questa paura che ti afferra lo stomaco; luogo di pidocchiosi crumiri, via crucis, miseria, odio. Per Em – che erra da una pensione all’altra, che piange, che fa abortire sua moglie, che vuole scrivere, che cerca elevazione nella attività macchinale, l’estasi nel sudore – il lavoro è destino necessario, inevitabile. Em lava i piatti con i pensieri consumati dalle poesie, un esercito di formiche nel cervello che lo divorano come fossero vermi. La poesia lo guida come un lume nel paese del buio convincendolo che, se milioni di poeti avessero avuto una voce, sarebbe stata la voce di Dio. La poesia diventa amore – abbastanza flebile – con Emilia per poi fiorire in passione incontenibile con Annie Glick che dischiude l’uso esatto di ogni parola usabile: bello, brutto, sacro, feroce, meraviglioso, miserabile e si presenta per Em come veranda di vita, lente del mondo, ascendente scala della volontà – e come letto che, alla fine dell’amore, diviene tomba di poesia. La poesia, alla stregua del piacere, è una rosa avvizzita nel petto di una donna – spina oltre che rosa. Come in Drieu La Rochelle, ma forse con minore autocompiacimento stilistico, la scrittura è viscerale preghiera, religione occulta, pellegrinaggio, autofustigazione; lo scrittore – sacerdote di fallimenti – è anche praticante di calvari, macellaio della felicità, carnefice che non consola. La parola che penetra nelle stanze oscure con l’amore è, come in Rimbaud, viaggio e illuminazione, come in Montale varco, tentativo incompiuto di dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano per compensare il fatto di non essere l’uragano che si vuole dire, sputare, gridare. Carnevali è compenetrazione tra essere e tendere, tra essenza e carne, resa della immagine perfetta che è sensazione perfetta, vita perfetta. Le parole sono suoni, colori: crolla la distanza tra le lettere e le cose. Come per Kerouac, Fante e Bukowski la strada è carta da scrivere, petto verginale, in attesa – come è vergine, fanciullo amante dell’aurora, bambino da strada, Carnevali. E se ci potesse essere una ingenuità smaliziata, una malizia ingenua, certo sarebbe lui, Carnevali, a incarnarla. Lui che conosce il calore solo tra i disperati, l’unico a fondare un’armonia profonda che precede la morale, che non rispetta le regole borghesi, che battezza il sodalizio di amore e dolore – sapevo che avrei potuto amare fino alla violenza, che avrei potuto stringere una donna fino a farle uscire l’anima. La prosa di Carnevali appare semplice, immediata: frasi corte, parole comuni, molte anafore. La disperata sobrietà del racconto, l’estrema sincerità e la capacità di riprodurre le più sottili sensazioni ci iniziano a un’America quasi ruggente, culla della speranza, ma ancora latrice di agonia. Benché – quasi fosse un personaggio di Hamsun – Em rischi di morire di fame e di indigenza, non ci sono ostentazione del dolore e retorica del vittimismo; Carnevali non ama chi lo compatisce né chi vende il dolore, chi fa della ferita una questione d’affari. Talvolta compare la fredda cattiveria di chi soffre – cinismo dei miserabili, occhio dei reietti. Em, vivendo in una specie di glorioso vapore, è giovane vampa che non si piega agli arzigogoli dei grandi; tanto solo i poeti possono capire i poeti, solo i poeti leggono i poeti, questi re della forma, ballerini infaticabili del verso che hanno per dominio il vuoto, per impero il silenzio, per regime il disordine. La scrittura è un modo di accostarsi al divino che, se da un lato è un dio troppo lontano, dall’altro è ombra di cose, fruscio che introduce, dolore che le anima. Carnevali è il primo dio di se stesso perché non ha mai avuto altri dèi, nessun Dio gli ha mai parlato e lui non ha mai pregato. Ma, in una sorta di gnosticismo panteistico, è altresì il primo dio a essere nato, a esserci, a essere di questo mondo. Dio è anche silenziosa esaltazione che Carnevali esperisce nella spersonalizzante alienazione del lavoro – un vago sognare, un sentimento come un Messia, un dolce Cristo. Credere di essere dio significa essere fedeli di se stessi – accettazione del crollo, mistica della caduta, catabasi e anabasi. È un dio umile quello di Em, come nessuno prima, che compie i peggiori errori, un dio brutto, che non fa miracoli. Un dio bislacco, improvvisamente concepito, concepito dalla intuizione, scaturito dalla vita, desiderante i colori del mondo. Come in Robert Brasillach la sensibilità assume cromatismi simbolici sino ad annerire – nigredo dell’io – le troppo umane ambizioni del soggetto. Le macerie dischiudono all’alba che, giustiziando il piccolo uomo, plasma la metamorfosi nella pazzesca formula di dio:
(…) io ero, per me stesso e per tutti gli uomini, il Primo Dio, l’Unico Dio, (…) l’unico apostolo della mia religione: rispettavo il sole e la luna, benché, nel mio orgoglio violento, non avessi bisogno di loro (…). Per essere un dio, un vero dio, bisognava saturarsi di cose semplici: ecco la via più facile per raggiungere la perfezione della divinità.
Come in Nietzsche la religiosità che ci avvicina alle semplici cose transita per la follia che è entusiasmo, perdita dell’io, invasamento di un dio. Il disfacimento della realtà è anche smarrimento del proprio corpo che in un continuo tremolio fuoriesce da sé aprendo – alla stregua di Artaud – al proprio doppio. Uscito da sé per sprofondarci più radicalmente, il poeta inciampa senza risorse, in un mondo incerto. Le cose che erano parole, d’un colpo, perdono il loro nome perché una vite si è allentata, un dado si è spannato, una rotella è andata fuori posto – e nell’intera macchina della realtà è saltato l’interruttore. Nella malattia c’è qualcosa di poetico, di primordiale che, stirando la poesia all’estremo, la esaurisce sino al nulla per rifondarla nel ripudio della vecchia fraseologia. La mania della poesia, la poesia della mania educano al tellurico martellamento del linguaggio, allo scuotimento dell’albero del sapere, della parola. Si tratta di un esaltato tormento spirituale di cui Em va fiero e che, d’altronde, almeno in parte, lo rende meritevole, quasi quanto la poesia, dell’interesse degli altri, dei grandi poeti, che lo amano, lo finanziano, vanno a trovarlo. Ma fino a un certo punto, perché la malattia fatalmente allontana, il disagio fatalmente disturba, il dolore inizia al distacco, alla diffidenza, alla differenza, apre alla solitudine – e la solitudine apre ancora alla scrittura. Così, uscito dalle case di cura, Em si trova solo, ridotto in frantumi vertiginosi, col consueto, continuo, indecente tremolio, un fannullone, un cane che abbaia alle pietre che non può raccogliere e scagliare:
Non riuscivo più a capire lo humour di quello scherzo cosmico che era la mia esistenza. Non riuscivo più a vederne il lato buffo. Non riuscivo più a trascinarmi dietro questa vita infame, come un idiota si tira dietro un codazzo di bambini che lo schiaffeggiano.
Il passaggio dalla città alla natura non è più sufficiente e lo stesso mondo di cui era stato l’oscuro, unico demiurgo, nel deflagra nel nero. Sorge l’idea del ritorno: l’Italia – e il romanzo si racchiude, come Em, nel solco dell’origine. Troppe – troppo poche – le parole per raggiungere l’esule, il poeta. L’impressione è che i nodi si avvitino allorquando si ha la presunzione di svolgerli.
Col mistero accade un dio – e avverte sempre il cielo del grido la carezza.