Per gentile concessione dell’editore Settecolori, pubblichiamo un estratto dell’introduzione di Roberto Alfatti Appetiti al romanzo “Sei ore da perdere” di Robert Brasillach, acquistabile qui (edizione numerata).
«Bentornato, tenente». Al di là dei saluti ufficiali e di quelli di mera circostanza, è una ragazza «dalla piccola e incantevole figura» la prima persona a rivolgere la parola a Robert B. dal momento del suo rientro, dopo quaranta mesi di prigionia in Germania, nella capitale francese ancora occupata dai tedeschi. La giovane donna riconosce l’uniforme «logora e sbiadita» dell’ufficiale, si ferma ad aspettarlo ad un angolo di strada, gli augura buona fortuna e scompare lasciandogli una dolce sensazione.
È una della lunga carrellata di «istantanee» con cui si apre Six heures à perdre, il racconto che la controfigura dell’autore fa al ritorno in una Parigi molto diversa da quella che aveva lasciato, ampiamente descritta nelle precedenti opere e che a tratti sembra riaffiorare: «A ogni angolo il mio diciottesimo anno di vita che mi aspetta, i vecchi libri sotto le braccia e i nomi delle ragazze di un tempo nella testa».
Bentornato, Brasillach, negli inconsueti panni di investigatore alla Maigret, di indagatore dell’animo umano, di grande affabulatore, di curioso e coraggioso sperimentatore di innovative strutture letterarie in grado di superare la ricorrente crisi del romanzo tradizionale.
Gli editori italiani che lo hanno talvolta richiamato in servizio hanno sinora preferito soffermarsi sul polemista feroce, sull’intellettuale colpevole di «intelligenza con il nemico», su colui che in sede processuale preferì difendere l’onore piuttosto che la vita.
Scelte editoriali legittime, ma effettuate a scapito del «critico i cui giudizi fanno scuola» e del romanziere prolifico che, a soli trentacinque anni di età, aveva già al suo attivo una brillante produzione letteraria impreziosita da antologie, cronache giornalistiche, saggi teatrali, traduzioni, poesie e da una monumentale storia del cinema scritta con suo cognato Maurice Bardèche. Un intellettuale che apprezzava il gusto del passato, rivolgeva disinvoltamente lo sguardo ai classici, ma era immerso nel proprio tempo, perfettamente a proprio agio nella modernità, pressoché unanimemente considerato una delle stelle più luminose del panorama culturale della Francia tra le due guerre.
Ciononostante, nelle estemporanee pubblicazioni di e su Robert Brasillach, diluite sino a perdere ogni residuale sapore di attualità e interesse, si è finito con il concentrare l’attenzione sul martire politico, liquidando le sue opere letterarie come «minori», quasi un incidente di percorso, le divagazioni annoiate di un intellettuale engagé.
Il forziere dei suoi tesori letterari in questi lunghi decenni, pertanto, a parte lodevoli eccezioni, è rimasto in larga parte inesplorato, in particolar modo per il pubblico italiano a cui è stato dato in pasto, nel tacito patto tra adoratori e detrattori, soprattutto l’intransigente collaborazionista.
È un Brasillach inedito quanto inatteso, invece, quello che presentiamo con Sei ore da perdere: inedito in quanto mai pubblicato prima d’ora nella nostra lingua, ma anche nei contenuti, nello stile, nella maturità del pensiero.
Sulla genesi del testo non diremo di più: il lettore troverà tutto ciò che lo può interessare nella postfazione di Fausta Garavini.
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Brasillach, gliene va dato atto, non fugge dalle sue responsabilità. Rinuncia a mettersi in salvo a Sigmaringen (il castello della trilogia di Louis-Ferdinand Céline), dove si rifugiano quasi tutti i personaggi di spicco di Vichy. Nell’agosto del 1944 i Tedeschi evacuano Parigi. La macchina dell’epurazione si è già messa in moto. Poche settimane dopo, l’arresto della madre, della sorella e del cognato – stratagemma meschino, efficace – lo induce a costituirsi. La detenzione nel carcere di Fresnes gli fa rimpiangere gli «agi» della prigionia nei campi tedeschi. Quella promiscuità «di cui il cameratismo non sempre attenuava gli inconvenienti», scrive in Six heures à perdre. I suoi articoli si trasformano in capi di accusa per inquisitori frettolosi in cerca di un simbolo da colpire. I meriti letterari vengono considerati, sì, ma come aggravante. I giurati, da parte loro, non si mostrano impressionati dal prestigio che circonda l’illustre imputato ed è facile immaginare che non abbiano mai sfogliato un suo romanzo. Né interessa loro che Brasillach sia orfano di un ufficiale francese caduto nel 1914 in Marocco.
La condanna a morte giunge dopo un processo sommario che dura poche ore, esattamente sei, quante Brasillach nel romanzo aveva messo a disposizione di Robert B. per portare notizie dei prigionieri alle loro famiglie e risolvere un «giallo»:
scoprire chi è davvero Marie-Ange Oliver, «la piccola selvaggia di origini provenzali», conosciuta nella «cornice artificiale di un cabaret parigino durante la guerra» da Bruno Berthier, il giovane ingegnere che aveva condiviso la prigionia con Robert B. e portava con sé una copia di Gilles, il romanzo di Pierre Drieu La Rochelle in cui «sembrava che andasse volentieri cercando il modello di un ragazzo duro, avido di vita, amato dalle donne».
Cosa ha a che fare quella ragazza mora il cui fascino risiede nel «dono d’infanzia eterna che sembrava aver ricevuto», capace di restituire al suo amico Bruno «l’allegria della giovinezza», con l’assassinio dell’olandese Guillaume Hooten, il losco personaggio con «l’aria di un demone»?
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François Mauriac, Paul Valéry, Paul Claudel, Daniel-Rops, Marcel Aymé, Jean Paulhan, Roland Dorgelès, Jean Cocteau, Colette, Arthur Honegger, Maurice de Vlaminck, Jean Anouilh, Jean-Louis Barrault, Thierry Maulnier e tanti altri intellettuali firmano un appello al generale De Gaulle affinché conceda la grazia, ma non vengono ascoltati. L’esecuzione nel forte di Montrouge scrive la parola fine alla vicenda umana di Brasillach, ma solo a quella.
«Se Brasillach fosse ancora tra noi avremmo potuto giudicarlo. Invece ora è lui a giudicare noi», disse Albert Camus, tra i firmatari dell’appello.
«Ha pagato per noi», ammise Lucien Rebatet nel 1950.
Uno dei pochi, Brasillach, se non l’unico, ad aver mostrato più di qualche dubbio, come conferma anche la lettura di Six heures à perdre. «Molte speranze erano state deluse», scrive.
L’ultimo Brasillach non era disponibile a mentire ai suoi lettori. Non credeva più nella vittoria tedesca, né tantomeno la auspicava. In uno dei dialoghi del romanzo, nell’immaginare i tedeschi sfilare sugli Champs Elisées, affida al protagonista una battuta che non lascia dubbi: «un tale pensiero non mi sarebbe affatto gradevole».
La prima edizione in volume arriva nel 1953, a distanza di pochi anni dalla morte di Brasillach, eppure quell’esecuzione sembrava lontanissima, come se appartenesse a un’altra epoca.
E poi il romanzo narra vicende che i francesi avrebbero voluto dimenticare, poter considerare un capitolo chiuso: i bombardamenti – lo scrittore nel romanzo evoca «l’odore delle macerie delle migliaia di morti sulle mani dei liceali che sgomberano le
rovine» – e i razionamenti alimentari, il mercato nero e le restrizioni personali, le divisioni che si fanno faide fratricide, l’incertezza politica ed economica che si trascinerà a lungo. In una parola, l’Occupazione. Brasillach la descrive con la minuziosità e l’accuratezza che caratterizzano il suo tratto, mescolandola sapientemente con i ricordi della prigionia e i fantasmi del suo mondo letterario, mentre una trama complessa e avvincente, nel caos della Francia del novembre 1943, mette alla prova la breve permanenza di Robert B. a Parigi.
È lo spettacolo spaventoso dell’Occupazione, sia pure nella sua fase terminale, ad accogliere il prigioniero. «La comunità francese aveva smesso, mi pare chiaro, di interessarsi alla sorte di più di un milione dei suoi». Robert B. lo abbiamo conosciuto come semplice testimone in diversi romanzi di Brasillach, in altri anche come voce narrante e attore, è il perno su cui ruota gran parte della comédie brasillachiana. In Six heures à perdre è anche il protagonista, è l’autore stesso, sia pure con alcune licenze. Sei ore da perdere prima di lasciare nuovamente la capitale per tornare a casa. Sei ore per svolgere il compito che il rimpatriato si è assegnato.
È nella Parigi che lo ha accolto quand’era studente del Liceo Louis-Le-Grand e poi della prestigiosa Scuola Normale Superiore, nel Quartiere Latino che lo ha nascosto e coccolato durante la sua breve latitanza e che continua a lanciare le sue raffiche di ra-
gazzi e ragazze, ma ora «non mi vedevano, io che mi credevo loro fratello, che mi credevo tuttora simile a quello che ero stato».
Neanche il ristorante russo che frequentava da ragazzo è lo stesso. Le luci sono tenute basse, per risparmiare, il menù è razionato e si paga con dei ticket che non ha ancora imparato ad usare.
«Ciò che mi spaventa – scrive Brasillach – è l’intolleranza dei francesi l’uno contro l’altro».
Quello che colpisce, nelle pagine del romanzo, è l’indulgenza con cui abbraccia una realtà ben più aspra di quella che aveva intravisto attraverso la lente deformante dei giornali letti nel campo di concentramento e anche di quella Parigi che, nel maggio del
1940, pensava che la «vera» guerra non dovesse arrivare mai.
Non prende posizione, non giudica, non condanna, se non la nascente aristocrazia di contrabbandieri che per le operazioni più rischiose si serve della manovalanza di giovani idealisti: «Non è difficile sedurre dei ragazzi. Si è spesso abusato di questa facilità, e poi si sa, a chi consiglia non gli duole il capo».
«La vita dei vinti è spesso una severa maestra», scrive ancora. È un Brasillach disincantato, amaro, che non si fa più illusioni. Tiene distante il piano del miraggio da quello della realtà che in precedenti lavori avevano finito con l’intrecciarsi e il confondersi. Nella prigionia non c’è niente di spirituale, afferma. La prigionia è la caserma, null’altro. Se è vero che la guerra finisce per ringiovanire gli uomini, annota, «come giustificazione è terribilmente insufficiente».
L’eminente dignità del provvisorio è ormai un retaggio del passato, resiste miracolosamente la gioia di vivere ma non c’è più quella del lavoro, uomini e donne per sopravvivere cercano scorciatoie, non esitano ad affidarsi al loro lato oscuro. «Non è vero che la disgrazia rende più buoni», osserva Brasillach senza trascurare di riprendere ogni cosa nelle sue spietate inquadrature: «Alcuni si facevano più tedeschi di quanto i tedeschi non avessero mai chiesto, […] le imposizioni dovute dai commercianti e contadini alle organizzazioni della Resistenza, sotto“minaccia del mitra”».
Sei ore da perdere appartiene comunque a pieno titolo al suo universo letterario vivace e variegato. Lo confermano le citazioni che Brasillach semina con apparente noncuranza qua e là, strizzando l’occhio al lettore più attento e lasciando perplesso chi non conosce i suoi romanzi ancora inediti in Italia.
Quando si riferisce alla piccola Anne, richiamando alla mente un pomeriggio trascorso insieme al luna-park, ci sta parlando della protagonista de L’enfant de la nuit (1934). Mancano all’appello, limitandoci ai romanzi, anche Le Voleur d’étincelles (1932), Le Marchand d’oiseaux ou le Méridien de Paris (1936), La Conquérante (1943) e l’incompiuto Les Captifs (1963).
Sarebbe ormai tempo di restituire a Brasillach ciò che è di Brasillach.
Dispiace che “I due stendardi” di Rebatet edito dalla Settecolori sia finito fuori catalogo dopo solo un anno e non più ristampato…