“Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, avrei scelto l’America” cantava Francesco De Gregori in Buffalo Bill. In fondo così si può sinteticamente ma non semplicisticamente riassumere la parabola intellettuale di Elio Vittorini. Laddove l’America è metafora di un’ansia ancestrale di libertà. Libertà più volte al centro di una sorta di squilibrio tra le vicissitudini dell’uomo e quelle dello scrittore. Vittorini fa della anarchia una declinazione della libertà individuale, dentro l’incauto ondeggiare tra adesione al fascismo e all’antifascismo e la trasfigurazione letteraria di quella imprudenza negli astratti furori e nei simboli che ne conseguono.
La bio
La biografia di Vittorini (nato a Siracusa nel 1908 ma vissuto soprattutto a Milano dove muore nel 1966) parte dalla frequentazione dei circoli anarchici e in particolare della bottega dell’anarchico siracusano Alfonso Failla fino a investire sia le prese di posizione nel pieno del regime e della guerra (partecipazione al convegno di Weimar nel 1942 o la disattenzione verso le leggi razziali, come nota acutamente Enzo Papa in Vittorini tra fascismo e resistenza), sia la promozione della fumettistica di Disney in funzione antinazionalista ( da leggere gli studi di Raffaella Rodondi o di Annalisa Stancanelli) sia il rifiuto celeberrimo di incanalare la propria letteratura dentro il diktat togliattiano. La produzione comincia con i racconti Piccola borghesia del 1931 e con Il garofano rosso del 1933 (uscirà in volume nel 1948) e Viaggio in Sardegna del 1936. Il 1936 è motivo costante e originario della maturità letteraria di Vittorini: deluso per il sostegno di Mussolini alle forze reazionarie di Francisco Franco, allo scoppio della guerra civile spagnola si avvicina alle forze di opposizione e ai gruppi comunisti clandestini. Ma lo fa con un profondo travaglio se nella rivista “Il Bargello”, vicina al regime, scrive “Le velleità di dittatura che non corrispondono a un contenuto fascista compromettono il nome fascista. Le acque vanno separate”.
Pensiero instabile
Disse e si contraddisse, prendendo in prestito Leonardo Sciascia che rivendica la libertà dell’intellettuale di contraddirsi pur di non soggiacere al conformismo? A Vittorini manca, tuttavia, la solidità di pensiero che fu di Sciascia, sebbene proprio la metafora dell’America spiega la contraddizione perché la immette nell’alveo della ricerca di una condizione pre-civile, ancestrale della libertà fino a farla coincidere con il mito della frontiera. Illuminante è l’analisi dell’italianista Antonio Di Grado in L’idea che uccide:
“Di ideali in quegli anni [gli anni dal 30 al 40] Vittorini n’ebbe più d’uno. E mischiò le carte del corporativismo fascista alla giovanile anarchia, teorizzando la ricomposizione di lavoro intellettuale e manuale, e quelle dell’infanzia nomade e dell’adolescenza libertaria con il mito della frontiera, e l’infatuazione per un’America come rovesciamento assoluto, robinsoniano, della storia con lo spirito puritano dei Padri Pellegrini…. E in Conversazione in Sicilia affilerà i suoi furori anarchici assieme alle lame dell’arrotino Calogero e trasfigurerà la casa e la bottega di Alfonso Failla nel covo di Ezechiele e nell’osteria di Colombo, dove si ragiona e si scrive del mondo offeso e del genere umano perduto”.
La pubblicazione nel 1941 del capolavoro Conversazione in Sicilia è seguita da Uomini e no nel 1945 e nel 1947 da Il Sempione strizza l’occhi al Frejus, nel 1949 termina Le donne di Messina, nel 1950 torna al racconto con La garibaldina e nove anni dopo pubblica l’ultimo romanzo Le città del mondo. In mezzo Il mio ottobre fascista (1932 su il Bargello), Il barbiere di Carlo Marx (1946) e l’inedito postumo Il brigantino del papa pubblicato a cura di Sergio Pautasso nel 1985. Titoli che svelano e confermano l’intreccio tra storia e racconto, tra finzione e verità, tra reale e mitico che fa della produzione vittoriniana un unicum nel panorama letterario del ‘900 con esiti- si ritiene- di gran lunga più stimolanti rispetto al coevo Cesare Pavese cui viene spesso accostato anche in ragione dei rapporti tra i due scrittori.
Vittorini narratore impone una riflessione sul rapporto tra scrittura e verità, forse anche sul romanzo storico genere che mai avrebbe potuto frequentare ma che oggi attraversa un momento di revival. I romanzi di Vittorini, infatti, hanno una forte componente storica sulla quale lo scrittore stesso proietta le sue inquietudini e offre se stesso a una narrazione in cui l’io narrante e l’io narrato si prestano sì alla specularità ma restano inafferrabili: la biografia resta al di qua della finzione e si sublima in quello che la letteratura esige ovvero la trasfigurazione e l’esemplarità. Mentre oggi la riscoperta del romanzo storico, pur nell’ambizioso tentativo di ricostruzione di una memoria esatta, fallisce la definizione manzoniana e prende la china di una autofiction eccessivamente scoperta o addirittura egolatrica e di privati furori. Elio Vittorini fu lo scrittore impegnato per eccellenza, colui che più di ogni altro ha consegnato al suo tempo astratti furori di compatta materia, ha denunciato gli orrori della guerra (l’ehm…del soldato morto in “Conversazione in Sicilia” è splendido nella sua ferocia), della tortura (da rileggere i passi relativi alla tremenda morte di Giulaj, o i personaggi di Clemm e Cane Nero in “Uomini e no”), della censura trasfigurata nella “quiete della non speranza” e ha insegnato che l’uomo vale più del tempo in cui è immerso.
Il raffronto con Malaparte
Lo stesso può dirsi di Curzio Malaparte? Affrontare il rapporto tra Curzio Malaparte, l’arcitaliano come lo disse Leo Longanesi, ed Elio Vittorini vuol dire entrare a gamba tesa nella questione del ruolo dell’intellettuale. Per entrambi, scrittori ossimorici, all’intellettuale si affida il compito di rappresentare ed elaborare in forma artistica le abiezioni morali della dittatura e del conflitto mondiale e di certe istanze nel dopoguerra, fuori da ogni tentativo di moralismo altrimenti considerato falso e retorico. Da una parte l’occasione dell’incontro ovvero un articolo che nel 1926 Vittorini diciassettenne invia a Malaparte L’ordine nostro. Lettera a Vossignoria. Malaparte ne resta ammirato e inserisce Elio nell’ambiente giornalistico. Dall’altra, appare interessante il confronto tra le due personalità. Malaparte l’intellettuale reietto dal mainstream bipartisan (fu inviso tanto a Moravia quanto a Montanelli), il sostenitore di Mussolini e il suo più caustico oppositore, il fascista della prima ora e il post fascista che scrive
“Muore tutto ciò che l’Europa ha di nobile, di gentile, di puro. La nostra patria è il cavallo. Voi capite quel che voglio dire. La nostra patria muore, la nostra antica patria. E tutte quelle immagini ossessionanti, quella continua ossessione dei nitriti, dell’odore orrendo e triste dei cavalli morti, rovesciati sulle strade della guerra, non vi pare che rispondano alle immagini della guerra, alla nostra voce, al nostro odore, all’odore dell’Europa morta? (Kaputt, 1944).
E nel romanzo fantapolitico Storia di domani (1949):
“Dal momento che tutti erano diventati comunisti, che bisogno c’era di fare i comunisti? La prontezza di quell’universale voltafaccia aveva profondamente meravigliato i Russi: che popolo, l’italiano! Quei poveri Russi non credevano ai propri occhi. Tutta l’Italia in pochi secondi aveva arrossito in tal modo, che lo stesso Secchia pareva una rosa sbiadita […] Sono uno scrittore, e un uomo libero. Uno scrittore, che sia anche un uomo libero, non esprime, e non serve, che le proprie idee. Perché dovrei oggi collaborare con i Russi, dal momento che, dal 1940 al 1945, non ho collaborato con i Tedeschi? Li ho, anzi, combattuti al fianco degli Alleati. Aggiungo che non collaborerei con i Russi, nemmeno se fossi comunista”
Malaparte mette in discussione il concetto di storia come processo di civilizzazione, più volte attacca la narrazione del Secondo Risorgimento, sotto il cappello alleato, per il popolo italiano dopo il ventennio né crede alla ritrovata concordia con la Chiesa cattolica. Malaparte è soprattutto un intellettuale che in una forma narrativa franta, allucinata, sconcia, grottesca e provocatoria ha messo in scena le aporie del ‘900. Se ne era accorto di recente Milan Kundera. Lo scrittore ceco apprezzava l’opera di Malaparte, lodava di Kaputt (1944) la forma originale e assolutamente nuova e di La pelle (1949) l’autenticità. Tralasciando le questioni riguardanti lo pseudo-Malaparte ossia la tesi che Vittorini faceva da ghost writer ad alcuni scritti polemici di Malaparte (Lorenzo Greco in Censura e scrittura. Vittorini, lo pseudo-Malaparte, Gadda, 1983) e la responsabilità del maledetto toscano in merito alla presunta iscrizione di Vittorini al partito fascista, la suggestione è una domanda. Se alla figura di Malaparte così controversa si è affibbiata la patente di intellettuale fascista liquidando la sua conversione o presa di coscienza come un insieme di “gesti plateali, eccessivi, in oltranzistiche negazioni di ogni razionalità” (Giulio Ferroni) o di essere uno di quegli “uomini che non hanno servito la Letteratura, ma si sono serviti di Lei come di un piedistallo per innalzare la statua del proprio Io” (A. Moravia), non accade con Vittorini l’esatto opposto ovvero che si voglia fare dello scrittore siracusano una bandiera dell’antifascismo, intruppandolo addirittura tra i neorealisti? L’engagement di Vittorini è lampante in Il garofano rosso, in Conversazione e nei romanzi che seguirono perché frutto di una personalità letteraria incline alla sperimentazione e alla trasfigurazione per via allegorica, onirica e mitica dei travagli di un’epoca e di un’esistenza. Se la letteratura per Malaparte doveva essere crudele (così definì il suo Kaputt), per Vittorini la letteratura doveva rinunciare alla funzione consolatoria e attraverso nuove modalità espressive, capire cosa muove le azioni umane nell’eterna lotta tra oppressi e oppressori, mentre il genere umano si è perduto ed è stato perduto. Qual è il ruolo dell’intellettuale? Si può trovare la risposta dentro i romanzi di Vittorini?
Il garofano rosso
In Il garofano rosso il personaggio di Tarquinio Massèo fa da traino ai giovani frequentatori della cava anarchica “Tutte le cose che egli sapeva diventavano tra noi comuni. I suoi libri diventavano i miei libri, le sue idee diventavano le mie idee, la sua logica diventava la mia logica”. Interessante è l’alternarsi della prima persona plurale e singolare: nel noi Vittorini comprende il senso di una generazione, la contestualizza come d’altronde avverte in occasione dell’uscita del romanzo nel 1948 quando scrive “Lo stato d’animo giovanile rispetto al fascismo non è analizzato nel libro in modo da riflettere storicamente qual esso fu al sorgere della dittatura. Vi si combinano convinzioni che si erano formate, tra i giovani, più tardi, e illusioni molto comuni proprio negli anni in cui scrivevo il libro, il ʼ33 e il ʼ34”.
In Conversazione in Sicilia il compito si frammenta in una serie di personaggi che, tornando a Malaparte sembrano espressione della fenomenologia del grottesco cui lo stesso indulge, nella loro valenza allegorica sono ognuno portatori di un’istanza ideologica e morale all’interno di quel viaggio della non salvezza che è “Conversazione” terminato con il riconoscimento della necessità di nuovi doveri del Gran Lombardo. Ma c’è Calogero in cerca di spade e coltelli da arrotare “Oh, io avrei piacere ad arrotare sempre una vera lama!” e c’è l’ehm di Liborio, il soldato che giace su un campo di neve e sangue, trafitto dal sogno di gloria millantato dal regime “per ogni parola stampata, ogni parola pronunciata, per ogni millimetro di bronzo innalzato”. C’è Ezechiele l’eremita, l’idealista che scrive la storia del mondo offeso “Digli che soffro ma che scrivo, e che scrivo di tutte le offese una per una, e anche di tutte le facce offensive che ridono per le offese compiute e da compiere”. Quale strumento appartiene oggi all’intellettuale: la mola dell’arrotino o il punteruolo dell’eremita? Ancora è tradimento della finzione mei riguardi della storia la questione di Cornelia in Conversazione in Sicilia “Tu mi hai imbrogliato con quella Cornelia. Non fu sul campo che morirono i Gracchi”?
In Uomini e no, romanzo della Resistenza, come lo definisce Edoardo Esposito in L’amore di Enne2, Vittorini racconta il criterio con cui venivano scelte dai nazisti le persone da fucilare “Purchè non mi tocchiate gli intellettuali[…] quando si tocca uno più conosciuto, addio! Tutti ne parlano”. Il passaggio è una sbavatura ironica dentro una storia scritta su carta vetrata o Vittorini pensa che gli intellettuali siano da salvare perché scomodi e ingombranti? Ma la questione posta dalle contraddizioni insite nella vicenda umana e letteraria di Vittorini e di Malaparte è se oggi ci sono opere e scrittori capaci di interrogarsi sul presente e di porre le basi per il futuro. O se invece opere e scrittori assomiglino agli indovini di Dante condannati a guardare dietro di loro. Un contrappasso che inchioda il dibattito culturale italiano a un inane chiacchiericcio.
Complimenti per lo studio ampio e approfondito alla professoressa Sessa. Vorrei fare solo qualche piccola postilla e aggiungere alcune notazioni personali. “Il Bargello” non era una rivista vicina al fascismo, ma l’organo ufficiale della Federazione fascista di Firenze. Se la prima pagina era fascisticamente impettita, le pagine culturali erano piuttosto libere, perché liberale era la direzione di Gioacchino Contri. Non so sino a che punto si possa parlare di fronda al suo interno; certo vi collaboravano scrittori che in seguito sarebbero passati all’antifascismo e al comunismo, come il callido Bilenchi lo stesso Vittorini. Dopo la guerra Vittorini scrisse alcune righe in difesa di Contri, sotto inchiesta per la sua collaborazione col regime, ricordando la sua liberalità nella direzione: era un modo, in fondo, di assolvere non solo Contri, ma se stesso, accreditando la tesi autoassolutoria che i suoi articoli fossero antifascisti, sia pure in forma ermetica.
Il rapporto fra Malaparte e Vittorini, personalità molto diverse e appartenenti a due diverse generazioni, separate dalla partecipazione alla grande guerra, è rappresentato dalla collaborazione del secondo alla rivista “La Conquista dello Stato”, il periodico ultrafascista in cui Curzio Suckert sostenne dopo il 1924 le tesi del fascismo oltranzista e “provinciale” (la conosco bene perché scrissi su di essa il mio primo articolo retribuito: 25000 lire! sulla rivista “Intervento” dell’editore Giovanni Volpe). La rivista lanciava messaggi quasi minatori al duce (“Tutti devono obbedire, anche Mussolini, al monito del fascismo integrale”) e, di concerto col “Selvaggio” di Maccari, sviluppò le tematiche di “Strapaese”. Anche il “primo Vittorini” (vorrei ricordare l’omonimo libro di Anna Panicali ) condivise tali tematiche, salvo, come Suckert Malaparte, allontanarsene diventando anzi un corifeo dell’antiamericanismo.
Sin qui le analogie fra i due scrittori e soprattutto i due uomini. Fra i due. secondo me Malaparte fu il più grande. Ebbe colpe enormi (con i suoi articoli sul “Corriere” preparò la rovinosa campagna di Grecia, al soldo di Galeazzo Ciano, che pose fine alla guerra parallela e ci pose alla mercè dei tedeschi), fu opportunista e mendace, narcisista e profittatore (si costruì la villa a Capri con i soldi dell’istituto di previdenza dei giornalisti), però sapeva scrivere e soprattutto aveva un senso alto e forte dell’italianità. Il suo ultimo libro, uscito postumo, “Mamma Marcia”, andrebbe letto nelle scuole, almeno in alcuni passaggi chiave. Mi ricorda, in buono, le ultime prese di posizione della Fallaci,spesso bugiarda come giornalista come lui, ma non opportunista e venale. Vittorini fece molte cose, ma non eccelse in nessuna: né come giornalista, né come redattore editoriale: basti pensare al veto posto alla pubblicazione del “Gattopardo”, che impedì al somma Tomasi di Lampedusa di assistere al trionfo del suo romanzo, uscito postumo. E come scrittore? Ho sempre trovato i suoi libri piuttosto noiosi, e in questo mi trovo d’accordo con Togliatti e con il caustico congedo che gli dedicò dopo il suo rifiuto di “suonare il piffero”: Vittorini se n’è gghiuto e soli ci ha lasciato”.
Concordo con Enrico, Vittorini non fu uno scrittore che lascia il segno, se non fosse per i suoi “meriti” antifascisti nessuno lo ricorderebbe a differenza di Malaparte che scrisse quel capolavoro che è La pelle in cui traspare la pietà per i nemici vinti
Ho letto gran parte dell’opera di Malaparte da giovane. Grande scrittore (Kaputt in primis), ma come uomo valeva poco, mi pare…
Corifeo dell’americanismo, non dell’antiamericanismo, chiedo venia