L’intervento. Il libro del generale Vannacci (che non comprerò) e il totalitarismo woke
Il volume è figlio di un’esasperazione dovuta ad un continuo bombardamento di messaggi a senso unico promotori di una visione del mondo dove le parole differenza, identità, famiglia e spiritualità non hanno più diritto ad un posto
Chi oggi si sdegna per Vannacci è la causa prima della sua opera. Non ho acquistato – né ho intenzione di farlo – il libro del generale Vannacci, per un duplice motivo. In primo luogo perché l’assenza di un editore (l’opera è infatti autopubblicata) mi porta a diffidare della qualità del testo. Non che la presenza di un editore sia sempre sinonimo di valore dello scritto, ma la popolarità dei sistemi di self publishing la dice lunga sul modo contemporaneo di intendere la letteratura: per l’autore onanismo, per il lettore un grezzo oggetto di consumo. Una società, in sintesi, che sembra aver abdicato al ruolo sociale e culturale della figura dell’editore.
Ho tuttavia letto alcuni estratti dell’opera, da cui la seconda motivazione dietro alla scelta di non acquistare il volume. Tra le righe, per quanto si riesca a percepire un messaggio che trova le sue radici in un sistema di valori conservatore (o meglio tradizionalista), l’argomentazione si risolve purtroppo in un’accozzaglia di luoghi comuni che, fra l’elettorato italiano, polarizzano il dibattito pubblico da anni: un calderone che sembra fatto di quei post che popolano le bacheche dei più incalliti utenti social.
Ben emerge nel testo l’estrazione militare dell’autore a proposito dell’uso della Storia: non un oggetto da studiare, ma un prontuario da cui cavare alla bisogna esempi (con il fine certo nobile di ricreare su vasta scala nazionale quello spirito di corpo tipico proprio dei reparti militari, e che trova negli esempi dei predecessori materia per alimentare coesione e coraggio). Un’operazione, tuttavia, metodologicamente scorretta, che porta alla paradossale convivenza nel libro fra la definizione di a-normalità riferita agli omosessuali e la presentazione di Cesare, notoriamente bisessuale, come modello di riferimento. Dunque una banalizzazione di temi polarizzanti: una parte dell’elettorato vi si riconoscerà, un’altra si riconoscerà nello sdegno per quanto letto. Insomma, non credo che il libro aggiunga nulla al dibattito, e in questo muore il mio interesse.
Non voglio qui interrogarmi sull’opportunità di un’edizione così discussa da parte di un ufficiale ancora in servizio, sebbene all’interno del dibattito che questa ha suscitato molti sembrano non avere ben chiara la differenza che intercorre fra opportunità (che è lecito discutere) e legittimità della pubblicazione (che, in un sistema veramente democratico, non sarebbe mai stata oggetto di contestazioni).
Tuttavia, se è vero che il libro non dica nulla che non sia già stato detto o pensato (a torto o ragione), perché allora il generale avrebbe dovuto pubblicarlo? Personalmente, ho quasi il sentore che ciò che lo abbia spinto a dare l’imprimatur alle pagine altro non sia che l’esasperazione. Un’esasperazione dovuta ad un continuo bombardamento, da anni a questa parte, di messaggi a senso unico promotori di una visione del mondo dove le parole differenza, identità, famiglia e spiritualità non hanno più diritto ad un posto. Un’esasperazione dovuta ad un’implacabile propaganda di matrice woke e pregna di lassismo e relativismo, che non ammette critica o dibattito. E credo che con il suo libro il generale si sia fatto carico per molti di questa esasperazione, anche se la qualità letteraria (e, in parte, contenutistica) rimane assai discutibile. Dunque, accaniti giornalisti e lettori sdegnati, fatevene una ragione: il perché di quelle pagine risiede anche nei messaggi che da anni, con ossessione, portate avanti nel dibattito pseudo-culturale di questo Paese.
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