Nell’immediato dopoguerra non sarebbe stato facile ribadire il proprio tragico vitalismo avanguardista, soprattutto se a scrivere fosse stato un volontario della Grande Guerra poi legionario fiumiano e amico intimo dell’indomito, scomodissimo Guido Keller. Nondimeno Giovanni Comisso non può essere accusato di eccessivo prudenzialismo o, peggio, di voltagabbanismo avendo egli sempre avuto col potere – finanche con quello fascista – un rapporto complesso, ispirato all’utilizzo audace della intelligenza, alla pratica sottile della libertà.
Nel romanzo del 1949 Gioventù che muore infatti l’autore trevigiano sembra allontanarsi da una certa concezione del mondo non tanto perché rinneghi esplicitamente i motivi che lo avevano condotto, checché se ne dica, come tanti altri a stare da una certa parte, ma perché, piuttosto, gli pareva che fossero stati traditi i più ardimentosi militanti di quella stessa weltanschauung: i giovani. D’altronde Comisso – che ancora all’inizio della guerra collaborava con periodici quali Primato – dopo l’armistizio di Cassibile, pur avendo avuto vari problemi con la censura, non si aggregò al nugolo di intellettuali dichiaratamente antifascisti e, anzi, scrisse articoli di natura culturale per il Corriere della sera che in quegli anni, sotto la direzione di Ermanno Amicucci, era annoverato tra i giornali più vicini alla Repubblica Sociale Italiana.
D’altra parte, anche dopo la guerra, egli continuò a produrre delle esegesi originali e mai improntate al dogmatismo su scrittori e politici di ogni colore – scrisse ad esempio di D’Annunzio, Ugo Ojetti, Leo Longanesi, ma pure di Nenni. Perciò, a dispetto di certe ricostruzioni, se Comisso non può essere ridotto a una ideologia di nessun tipo, non può nemmeno essere inquadrato alla luce del consueto canone resistenziale che allora come oggi divide, in virtù di un irrimediabile e decadente moralismo, i buoni dai cattivi.
Oltre le etichette
Comisso sfugge a questi barbari ingabbiamenti perché come i più grandi ha sempre vissuto, in ogni senso e senza autocommiserazione, con estrema libertà al di qua delle etichette ed è stato scandaloso a suo modo per tutti o, direbbe Nietzsche, considerata la sua arte e la sua innata discrezione, per nessuno. In Gioventù che muore – testo ripubblicato nel 2019 da La Nave di Teseo e introdotto da Paolo Di Paolo – tutto inizia con l’incontro in una pista da sci sull’Altopiano di Asiago tra il ventenne Guido e la trentenne Adele che, osserva qualche critico, sarebbe l’alter ego femminile dello stesso Giovanni – il quale durante la guerra si sarebbe innamorato del “poeta fuggitivo” Guido Bottegal, un ragazzo fucilato dai partigiani perché ritenuto spia dei tedeschi. Se dunque Adele rappresenterebbe lo scrittore, il personaggio maschile raffigurerebbe lo sfortunato amico di Comisso. Eppure il personaggio Guido è anche Guido Keller e sensibilità diverse, esperienze biografiche, slanci ideologici e poetici si intrecciano in un nome per l’autore indubbiamente evocativo.
Tuttavia, malgrado questi pettegolezzi letterari, ciò che conta è lasciarsi andare alla trama del romanzo staccando – cosa quasi impossibile – l’opera dall’operaio. Guido, quello fatto di parole, è uno spirito irrequieto che continuamente oscilla tra l’estetizzazione della esistenza e il rifiuto dell’autorità, talvolta della guerra, financo – ma non sempre – della stessa Milizia e sicuramente degli occupanti, a tal punto da scrivere sul muro “A morte i Tedeschi” e da inviare una lettera a un amico “bolscevico” accusando i fascisti di avere tradito i giovani. Ma in Guido, ce lo si lasci dire, di comunista c’è ben poco – non tanto perché egli umanamente non vorrebbe la fine della ingiustizia e non odi profondamente chi vorrebbe violentare il suo spirito libertario, quanto perché non sembrano precisi ideali di emancipazione sociale a muoverlo, bensì un fuoco interiore, vivere pericolosamente, un’insofferenza di matrice anarchica (ma non solo anarchica!) rispetto alle forme di potere, alle istituzioni, alla morale borghese. Guido, che per Adele è “la giovinezza con tutte le sue incostanze e inquietudini”, incarna un certo quale eroico furore, una faustiana volontà di oltrepassare in ogni istante tutti i limiti; nel suo desiderio di far saltare le muraglie della vita e della morte Comisso fa proprio l’invito di Nietzsche a non diventare mai maturi; il giovane protagonista appare come un romantico edonista perennemente inappagato che vive di pomodori e profumi di fiori, si arrampica sugli alberi per gustare le scarlatte ciliegie, ruba l’uva dalle vigne altrui, nuota nel fiume col suo amico, bacia all’improvviso Adele, la sogna nuda con lunghe calze nere, non vuole essere come “un gatto appena tirato su dall’acqua” – gode canta vive:
Senza padroni
Senza bottoni
Senza calzoni.
Senza guerra
Senza terra.
In libertà
Felicità
Per ogni età.
Senza fucili
Senza canili.
Epperò in questi versi e in generale nel personaggio non si registra solo il rifiuto del potere che come direbbe De André non è mai “buono” né soltanto si legge una rivisitazione del significato troppo rigido che in un contesto borghesizzato possono assumere i concetti di “proprietà” e di “autorità”, ma si ha anche il sentore che Guido voglia aderire integralmente a se stesso per scatenare al di là del bene e del male le sue energie elementari prima che defluiscano stancamente nella sonnacchiosa acquitrina della vecchiaia. Con tragica ironia il ragazzo sa che tutto volge al termine e che la giovinezza, questo gratuito dare “sangue, baci, amore, vita”, a vent’anni finisce – così la pensa lui, così la pensa un’intera generazione che non a caso in Giovinezza individua non solo un inno e un’idea astratta ma un modo di essere, un’etica, un’estetica. Non c’è infatti bisogno di scomodare Bakunin per trovare un certo anarchismo vitalista, basta, ad esempio, Gabriele D’Annunzio, basta l’esperienza di Fiume.
Guido – rovinato dalla sua sensibilità e dalla sua vita bestiale – crede che nell’uomo l’infinito finisca nella morte e che, però, se questa arriva a vent’anni, si è poi perfetti per sempre – così sarà per il suo più caro amico che morendo passerà “all’eternità sempre ventenne”, così sarà per le migliaia di giovani trucidati in una vertiginosa guerra, sempre più “oscura e inestricabile” ma allo stesso tempo sempre più sensata se morire giovani è della vita l’unico glorioso approdo e se, invece, chi resta “continua a imputridirsi col passare dei giorni”. Guido ondeggia di continuo tra l’idea della morte che eternizza la giovinezza e la paura della morte appiccicata alla pelle come l’odore di un cane putrefatto; egli come Adele da un lato immagina la guerra alla stregua di un’alluvione capace di sommergere la loro isola beata, dall’altro non sa stare fermo e, nonostante la ragione gli faccia pensare di opporsi a ogni costrizione e coscrizione, alla fine resta stregato da chi con una lucente mitraglia può sparare quando vuole:
A noi la morte non ci fa paura,
ci si fidanza e ci si fa l’amor
e se ci porta verso il cimitero
tu m’accendi un cero
e non se ne parla più.
Pertanto, quantunque sia l’autore che il suo personaggio evitino assolutamente di avvallare questi ideali in cui la vita e la morte di continuo si mescolano, si intuisce che chi scrive sa bene di cosa parla – e si sentono, sebbene forse non ci siano stati contatti tra gli artisti e gli stili siano assai differenti, non solo reminiscenze chiaramente rimbaudiane giustificate dai viaggi giovanili di Comisso in Francia, ma anche tematiche e riflessioni care ad altri scrittori della stessa dimensione metapolitica, ancora francesi, come Brasillach e Drieu La Rochelle. Se il Guido immaginato non collima pienamente con una persona ma sintetizza un tipo umano che include soprattutto alcuni amici dello scrittore, Adele, escluse certe affinità, non è affatto il doppio di Comisso. Adele è un personaggio complesso che non ha corrispettivi reali ma, pure lei, personifica suggestioni e sensazioni di alcune donne del tempo e ovviamente, non si può certo negare, dello stesso Comisso. Adele pensa che, essendo vecchia “alga strappata dal fondo del mare”, non sarebbe stata più toccata come una donna e ritrova in Guido una svolta inaspettata, il risveglio dei sensi, la realizzazione di un amore pulito che sintetizza miracolosamente, innocentemente la materia e lo spirito.
La figura di Adele
La ribelle Adele – anche lei – ha paura dell’inarrestabilità del tempo, del tramonto della giovinezza, ma l’amore, imprevisto e totale, apre una breccia, le dischiude un’altra prospettiva, a lei che, tra fallimenti scolastici e scandalose avventure erotiche, non era riuscita a dare alla sua vita una forma che non fosse artificio passeggero, inautentico abbellimento. Ingenuamente la giovane avrebbe voluto contagiare il suo fanciullesco e irraggiungibile compagno di giochi che l’aveva presa come uno sparviero e comunicargli, a lui divino e maledetto, che la vita inizia proprio dopo i vent’anni. Avrebbe voluto porre fine alla fuga di Guido, disinnescare la sua tendenza a un’esistenza puntiforme, indirizzare il suo pathos solo verso di lei, rallentare la sua tensione dionisiaca verso la continua, orizzontale trascendenza sensoriale. Adele, secondo cui la politica è solo “una questione di paghe, di tasse, di dogane”, avrebbe preferito morire piuttosto che perdere questo suo amore; avrebbe scelto di alienare tutto, se stessa, le sue gioie, la vita in cambio dell’invasamento erotico, in cambio del corpo così buono di Guido, in cambio di “qualcosa di non imprigionabile” che era in lui, in cambio di tutti i suoi impulsi, della sua assurdità, della sua giovinezza – come se avendo lui potesse riavere, piccola sorella di Dorian Gray, indietro pure la vita. Ma nei momenti in cui sembra che ci si debba risvegliare dal sogno dell’amore, incombe col Lamento di Arianna la tristezza:
Lasciatemi morire
Lasciatemi morire
(…) E in queste arene ancora
Cibo di fiere e dispietate e crude
Lascerà l’ossa ignude.
Ed io rimango cibo di fiere
In solitarie arene.
Sullo sfondo di questo sodalizio amoroso che l’autore racconta con brachilogica semplicità risvegliando delicatamente i sensi del lettore attraverso continui nostalgici rimandi al malinconico paesaggio veneto e alle sue parlanti città, si avverte come un incubo all’orizzonte il peso nero della guerra – quella mondiale e quella civile; e si avverte il peso della vita, una porta senza cardini che “non si apriva, né si chiudeva più”. Nelle descrizioni del conflitto che in parte ricordano Il cielo è rosso dell’amico Giuseppe Berto, Comisso non fa sconti e tutti sono indistintamente accusati di contribuire portando violenza e morte a rendere non solo l’Italia ma l’universo un posto caotico, infernale:
“Tutti erano armati: fascisti, tedeschi, partigiani, delinquenti, si divertivano folli e crudeli, prima che tra nemici, a infierire contro gli inermi per avere denaro e viveri da barattare. Possedere qualcosa portava a vivere nell’inquietudine, nella paura continua e a tutto questo si aggiungeva l’incubo crescente dei bombardamenti aerei degli inglesi e degli americani che cominciavano a battere le città, una alla volta: sempre più vicini”.
O ancora:
“Villaggi interi, dove si scoprivano armi, venivano incendiati. I partigiani al minimo sospetto di spionaggio contro di loro inferocivano prendendo di notte i sospettati dalle loro case e trucidandoli. I dolci paesi del Veneto tra i colli, sui pendii dei monti e lungo i fiumi non si riconoscevano più; erano resi desolati dal terrore. I bombardamenti aerei si rinnovavano crescendo e le stesse città già rase al suolo venivano di nuovo colpite. Le strade perfino di campagna erano mitragliate dagli aeroplani colpendo indifferentemente inermi e armati”.
Tutto intorno crolla. Adele e Guido, rovine di idee, crepaccio dei sensi. Bianco è il freddo dell’ultimo precipizio. Del cielo uguale è il silenzio a quello della terra sparsa di carcasse – moriva la gioventù.