Milan Kundera, morto ieri all’età di 94 anni, era il più celebre scrittore ceco della seconda metà del Novecento, ma ormai fuori dal tempo. Era diventato faticoso leggere i suoi ultimi romanzi, sempre più astratti e lontani da quelli che lo avevano reso famoso. I suoi vecchi cavalli di battaglia, poi, erano del tutto fuori moda.
Il suo abbandonarsi allo “spirito della complessità” mal si conciliava con la “semplificazione” dei nostri giorni. La sua intelligenza eterodossa era ormai incompatibile con l’odierna, spasmodica ricerca della purezza morale. Le sue esplorazioni, a tratti devianti, della sessualità femminile, non poteva essere tollerata nell’era del #MeToo. Eppure proprio il sesso era il lascito principale del periodo comunista della produzione di Kundera, quando venne da lui stesso elevato a uno dei pochi mezzi con cui gli individui potevano affermare la propria libertà di fronte allo Stato repressivo. La sua dedizione alla forma raggiunse un’ossessività impressionante, al punto che una volta licenziò un editore per avergli sostituito i due punti con un punto. Ha sempre vietato le edizioni Kindle dei suoi libri. Insomma, era ormai troppo inattuale.
Nessuno è mai riuscito ad etichettarlo. A chi lo intervistava per chiedergli se fosse di sinistra, rispondeva: «Sono un romanziere». Di destra, allora? «Sono un romanziere». Eppure quasi tutti i suoi romanzi erano un mix di politica, psicologia, storia, filosofia e sesso, con un filo conduttore: l’anticomunismo. All’età di 40 anni, aveva già vissuto l’occupazione nazista del suo Paese, la successiva resa allo stalinismo, le liberalizzazioni della Primavera di Praga e la repressione sovietica che ne seguì.
Ne “Lo scherzo” (1967), Kundera raccontò la storia di un giovane comunista espulso dal Partito per una mal giudicata battuta. Lui, che dal Partito era stato espulso nel 1950 per le sue idee “non conformi” e la sua “attività anticomunista”. “La vita è altrove” (1973) parla dell’evoluzione del carattere di un giovane poeta ossessionato dalla madre e del suo successivo passaggio alla politica studentesca di sinistra. In racconto incluso ne “Il libro del riso e dell’oblio” (1979) immagina un gruppo di “fedeli” comunisti che danzano in cerchio e gioiosamente levitano sui tetti di Praga. “L’insostenibile leggerezza dell’essere” (1984), come è noto, è ambientato nel clima di avversione verso l’invasione sovietica della Cecoslovacchia del 1968.
Il primo periodo comunista a Praga, a parte la sua atmosfera di vertiginosa psicosi utopica, fu segnato da orrori, molti dei quali surreali. Ci fu la fatale defenestrazione di Jan Masaryk, figlio dell’ex presidente, che assecondò il nuovo regime e si accorse troppo tardi del suo mostruoso errore. Nel 1952, tra processi farsa e purghe, le menti più brillanti del comunismo furono giustiziate e incenerite. Ma i ballerini di Kundera continuavano il loro gioioso passo veloce, saltellando con doppio fervore. Erano dalla parte giusta della storia e i loro cuori erano puri. Li chiamava “angeli”, e ne invidiava le movenze al passo con i tempi.
Kundera sapeva che il fondamentalismo comunista era incompatibile con l’umorismo, che era una realtà alternativa fatta di regole tutte sue, che banalizzava la serietà degli ideologi e li derideva fino a farli “evaporare”. L’umorismo era un sistema filosofico che “illumina ogni cosa” e per questo chi lo praticava doveva essere annientato. In un’intervista del 1980 con Philip Roth, disse che era capace di riconoscere un “anti-stalinista” dal modo in cui sorrideva: “Il senso dell’umorismo era un affidabile segno di riconoscimento. È da allora che vivo nel terrore nei riguardi di un mondo che ha perso il suo senso dell’umorismo”.
Nelle mani di un altro scrittore, più convenzionale, la ricetta avrebbe potuto rivelarsi indigesta, ma con Kundera la leggerezza prevaleva in tutto, anche nelle tragedie della politica.