Indagare i tratti dominanti di una generazione, scandagliarne aspirazioni, speranze, successi e illusioni, approfondire le dinamiche dei rapporti instaurati con i padri ed i fratelli maggiori verificandone il livello di tenuta non è un compito facile.
Ancor più irto di ostacoli può rivelarsi un approccio che, pur poggiando sul lodevole intento di presentare un quadro il più possibile esaustivo degli aspetti sociali, politici, pedagogici e di costume, non sempre raggiunge risultati del tutto soddisfacenti.
Edito da Einaudi nel 2020, “Nel groviglio degli anni ottanta – Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi” è incentrato su un’epopea minore, inconcludente e velleitaria: quella dei giovani che, come l’autore Adolfo Scotto di Luzio, arrivarono dopo la frattura del ‘68 e furono costretti a sopportare il peso psicologico del confronto tra il proprio stile di vita – in gran parte frivolo, orientato all’arricchimento materiale e all’affermazione individuale – e quello di chi, avendo vissuto una stagione da più parti presentata come “formidabile”, custodiva valori intramontabili.
Un aspetto “nascosto” del ‘68
La rievocazione della parabola degli etablis (gli studenti maoisti di estrazione borghese pronti a fomentare gli scontri al fianco degli operai durante il maggio francese) e il dispiegamento di sfaccettate sensibilità, quali la malinconia come effetto del disincanto del mondo, la noia surrogato dello svuotamento della politica, la fabbrica paradigma della solitudine e la “gabbia” specchio delle società industriali avanzate, introducono un tema “nascosto” della protesta, ovverosia la ricerca di un accomodamento tra la vita domestica dei genitori e quella dei figli.
Il consolidamento di una concezione romantica della rivoluzione, concepita da Herbert Marcuse come rimpianto della vita intensa che ogni mobilitazione collettiva di passione civile trasmette nell’animo di chi vi partecipa, si sovrappone all’implicita richiesta dei contestatori di un luogo protetto e intimo in cui sentirsi a proprio agio, al riparo da traumatiche trasformazioni.
L’aspirazione segreta all’idillio e alla comunità smarrita consentono di confutare la tesi che attribuisce ai sessantottini il rifiuto dei modi di vita ereditati dal passato, concentrandosi sulla propensione dei rivoluzionari ad immaginare la rottura come continuità; al tempo stesso i riferimenti di Jean-Paul Sartre al prototipo del “giovane arrabbiato” come elaborazione culturale definita ben prima del ‘68 minano la veridicità del mito per cui quei ragazzi “fecero tutto da soli”, restituendo l’immagine di un’epoca più complessa, segnata anche dalle problematiche della separazione e del sentimento della fine, centrali per esempio nel film “Il grande freddo” di Lawrence Kasdan.
Indiani metropolitani e dintorni
Sulla scorta dei mutamenti codificati in Italia dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, la sempre più insistente ricerca da parte delle coppie di uno spazio domestico, incentivata dalle nuove tendenze d’impronta radicale del design, ribalterebbe lo stereotipo del proletariato indifferente al comfort delle condizioni abitative. Il riconoscimento dell’importanza di un habitat privato nella definizione dell’immaginario giovanile è accompagnata da condivisibili riflessioni sui capisaldi di una pedagogia progressista e democratica che, predicando l’insindacabilità delle scelte di vita degli adolescenti, ridusse in pratica l’educazione a “esperimento”.
Nella cornice delle nuove forme di espressione musicale e della fumettistica, della diffusione di riviste che spesso esaltavano l’azione come forma esclusiva di espressione del sé, esibendo crudeltà gratuite, oscenità ed emulando mode già in voga negli Stati Uniti (per esempio la polemica contro la religione cattolica), il rimpianto del passato e la desolazione del presente si ergono quali pilastri della conclusione degli anni settanta, contrassegnati da una spirale continua di opposti estremismi, violenze e scontri.
Il ricorso esasperato alla forza evocativa dei simboli – la “storia di una foto” di Umberto Eco rieproduce gli avvenimenti di via De Amicis a Milano del 14 maggio 1977, compresa una miscellanea di frustrazioni esistenziali, difficoltà a integrarsi e condizioni private infelici di molti terroristi – non convince quando Scotto di Luzio, effettuando un balzo temporale in avanti nell’epoca di Margaret Thatcher, si sofferma su un manifesto del collettivo musicale britannico dei Red Wedge alludendo addirittura alla capacità di tenuta della rivoluzione proletaria, per poi passare al processo di rapida de-ideologizzazione del mondo giovanile e all’assenza di bandiere di partito nei cortei di piazza.
Emerge, peraltro, un evidente problema di metodo quando l’autore, rifiutando l’opportunità di analizzare per intero un universo in fermento, liquida in modo sibillino gli sforzi di rinnovamento del microcosmo giovanile di destra non compromesso con gli anni di piombo, sottolineando che Tolkien non fu patrimonio esclusivo di quella parte politica.
Spunti ben più significativi rispecchiano la crisi di legittimazione delle democrazie e il divario sempre più netto tra i cittadini e le istituzioni, la dimensione arcana della politica e il massiccio ricorso alla propaganda come sofisticata tecnica di manipolazione collettiva, in contrapposizione alle esigenze di società sempre più interconnesse e sviluppate sotto il profilo economico.
I movimenti studenteschi nel groviglio degli anni ottanta
L’emorragia di consensi certificata dalle elezioni politiche del 1979 e la scarsa aderenza con la realtà del partito comunista italiano, che non di rado aveva ottimisticamente interpretato la conflittualità permanente come un allargamento dei margini d’azione della lotta di classe, è accompagnata dalla più discutibile riflessione che esclude la violenza politica quale tratto rilevante della crisi nazionale, alimentata piuttosto dalle formule orientate a composizioni moderate lesive delle ragioni dell’opposizione.
Se tra i fenomeni di costume i raduni ai concerti negli stadi si imposero come espressione dei consumi culturali di massa (in netta contro-tendenza rispetto al periodo in cui gruppi della sinistra extra-parlamentare, rivendicando la fruizione gratuita degli spettacoli, avevano riservato a cantautori “impegnati” pesantissime contestazioni), film come “I guerrieri della notte” di Walter Hill avevano già evidenziato la centralità di argomenti – gli sforzi epici e il legame fraterno di adolescenti in armi – che richiamavano l’impresa proibitiva finalizzata a restituire un’identità al paesaggio urbano, deturpato dalla bestialità delle guerriglie tribali nei ghetti.
Scotto di Luzio osserva come nel groviglio degli anni ottanta ci si possa addentrare con un sentimento ambiguo: l’irrompere sulla scena di studenti dotati in generale di un bagaglio linguistico povero, impacciato e dimesso, ripiegati su se stessi nell’attesa di un ritorno di soggetti (ed eventi) di livello elevato va di pari passo con la minuziosa ricostruzione delle vicende del movimento del 1985. Viene evidenziata in modo efficace la frammentazione di un’identità collettiva, la dimensione post-ideologica e una scarsa “inclinazione” agli scontri di piazza, ma al tempo stesso una forte carica polemica nei confronti di chi, nelle istituzioni pubbliche, voleva sottrarsi all’esercizio del controllo dei governanti.
E’ controverso, invece, il riferimento al trionfo del privato, nel senso viene contestata la “retorica del riflusso” ma poi i suoi contenuti sono recuperati e associati alla miseria spirituale della condizione giovanile; la politica intesa come una sorta di “apprendistato”, di routine curricolare dell’adolescenza priva di emozioni, depotenzia non poco l’affermazione secondo la quale quei ragazzi si avvicinarono in età molto precoce alle mobilitazioni di partito.
Sfugge, d’altro canto, in quale modo le organizzazioni giovanili di sinistra abbiano potuto fornire principi di direzione politica al movimento se si riconosce, al tempo stesso, che le aggressioni reciproche tra esponenti della FGCI, di Democrazia proletaria e dei collettivi dell’autonomia non furono sporadiche; il riconoscimento della compiuta americanizzazione della cultura giovanile in molti settori – dall’abbigliamento al cinema, dalla musica alla gastronomia – non si traduce nell’individuazione di un modello alternativo che oltrepassi rivendicazioni neo-femministe e individualiste.
L’interessante approfondimento dedicato al mondo della scuola come simbolo concreto in cui si producono i grandi processi di disaffezione pubblica sposta l’attenzione sulla rilevanza che ebbe la questione della riforma per i giovani protagonisti del movimento universitario della Pantera a partire dalla fine del 1989. Matrici gesuite, collegamenti con la Rete di Leoluca Orlando (esageratamente definita “corrispettivo meridional-insulare della Lega”, senza delinearne l’identità), discredito della politica, forte componente etica racchiusa nello slogan della lotta alla mafia costituiscono alcuni dei presupposti del cleavage pubblico/privato, con l’annessa esigenza di sottrarre un ambito delicato alla logica del profitto.
L’iter di approvazione della legge Ruberti, istitutiva del Ministero per l’Università e la Ricerca Scientifica e Tecnologica e di riflesso dell’autonomia degli atenei, svelò come dietro alla verticalizzazione del potere accademico e all’accentramento delle competenze in materia di programmazione si celasse uno scontro di interessi particolari, che ebbe come attori principali la Democrazia Cristiana – per nulla intenzionata a perdere il controllo dell’organizzazione della cultura – e il partito comunista che, pur astenendosi dal voto parlamentare, concordò la stesura di un articolo in base al quale l’autonomia sarebbe stata comunque raggiunta previo decreto del rettore.
Si consumò così una disputa tra i sostenitori della riforma – che rivendicavano il diritto di ciascuno al massimo grado d’istruzione – e gli oppositori della Pantera, ossessionati dai rischi della dequalificazione degli studi e dal finanziamento della ricerca da parte degli industriali. La formazione intesa, in senso più ampio, come disponibilità dell’individuo a soddisfare le richieste di conformità avanzate dal mercato del lavoro avrebbe, di lì a poco, preso il sopravvento su istanze talvolta legittime, ma spesso perorate con approssimazione e ingenuità.
Il giudizio polemico, insofferente e distaccato (basti pensare ai taglienti affondi di noti ex esponenti di Lotta Continua) sui difetti e sulle carenze di una “generazione di stenti”, prigioniera della memoria di chi ha vissuto il ‘68 e sostanzialmente impreparata a qualsiasi serio tentativo di storicizzazione, chiude definitivamente il cerchio – anche nell’opinione di un autore che in parte rivive la propria autobiografia – di una stagione fallimentare.
@barbadilloit
Scotto di Luzio si considera marxista, quindi non vedo che interesse possa rivestire (e che attualità). Già anni fa pubblicò un libro sulla scuola e il Giornale berlusconiano si affrettò a encomiarlo. Bah, questa forma di complesso di inferiorità verso questi personaggi della sinistra snob non la comprendo.