Il colpo di stato dei bolscevichi, ottobre 1917, consegna loro il potere ma il Paese è allo sfacelo, al collasso economico. Che fare? Trotsky ipotizza la rivoluzione permanente, ipotesi esagerata ma valida. La sua teoria presuppone di portare il comunismo in altri Paesi. Prefigura un’espansione mondiale. Il problema è che la Germania e le altre nazioni non intendono affatto convertirsi. Anzi, spaventate si avvinghiano a regimi reazionari, la rivoluzione russa diventa lo sponsor dei fascismi.
A quel punto la Russia resa fragile dalla sua unicità di paese comunista si deve arroccare, ripiegando su un capitalismo o privato o statale. Naturalmente opta per il secondo affrontandone gli oneri. Adotta il comunismo di guerra che concede soprusi ed uccisioni, la militarizzazione del lavoro che nega qualsiasi diritto ai lavoratori. Ci sono carestie, epidemie, rivolte. Nelle campagne sbudellano gli incaricati alle requisizioni, i mugiki di Tolstoi muoiono di fame. Lenin si è fatto arcigno: “Saccheggiate i saccheggiatori!” e disprezza le assemblee, Lev Trotsky è il suo fido scudiero armato. A sorreggere la dittatura c’è la Ceka, la potente polizia segreta.
Lenin si becca la sclerosi cerebrale come il padre. Muore nel gennaio del 1924 e se ne va nel Mausoleo della Piazza Rossa. Iosif Stalin ha predisposto un gran scenario per raccoglierne l’eredità: sarà il suo unico discepolo. Stalin è ateo, è d’accordo con Marx, la religione è l’oppio dei popoli. Asporterà i mosaici delle chiese per impreziosire le stazioni della metropolitana di Mosca. (Beh, i Papi prelevarono i massi del Colosseo per edificare la basilica di San Pietro.) Ha fatto il Seminario, conosce il bisogno ancestrale che il popolo ha di Dio, e lo sostituisce con uno posticcio, con una misera larva umana. Lenin con il suo Mausoleo diventa il Totem del Villaggio.
Negli anni seguenti c’è lo schiamazzo nel pollaio tra i compagni di merende di Lenin per i posti da occupare ma Stalin, il rozzo georgiano, prende il sopravvento. Un percorso tranquillo durante i conflitti, senza eccellere, con l’ausilio di dichiarate malattie ma adesso si scatena. L’alibi dei massacri che seguiranno è dato dall’oscura uccisione di Kirov, suo possibile rivale, delitto che alcuni storici attribuiscono a lui. In ogni processo veniva ripetuta monotonamente e maniacalmente a tutti l’accusa dell’assassinio di Kirov, come se Stalin volesse liberarsi di un qualcosa che lo ossessionava.
Gli altri capi dell’ottobre, la vecchia guardia, sembrano i capponi del Manzoni. Stremati dalle lotte immaginano un futuro calmo, invece Stalin li coinvolge, si schiera con uno contro l’altro poi quando questo è eliminato si rivolta contro chi lo ha aiutato. È diabolico, medita la loro estinzione.
La rivoluzione diventa una Medea vorace che uccide i suoi figli. Con i processi farsa del 1936/38 Stalin diventa il becchino della rivoluzione. Si libera di Zinoviev, Kamenev, Bukharin e di altri del Politburo, l’organo massimo. Alcuni confessano colpe non commesse convinti di immolarsi per salvare la patria, la Madre Russia. Naturalmente eguale sorte è riservata ai grandi marescialli dell’Armata Rossa: Tukacevski, Budjonnyl, Blucher. Sembra che sia ritornato lo zar Nicola a vendicarsi fucilando i suoi avversari. La storia offre il suo indennizzo, la sua nemesi ma un dispotico usurpatore si è insediato nelle mura del Cremlino. Le utopie sono sepolte nei gulag con i compagni, con l’afflusso e la rotazione di tre milioni alla volta, a spurgare gli ideali comunisti.
In questa ecatombe scompariranno tutti coloro che hanno combattuto o osteggiato Kronstadt! Un nota curiosa: Vysinskij è il giudice boia di Stalin, una viscida figura, con le sue arringhe: “uccidete questi cani rabbiosi” ha fatto giustiziare i padri della rivoluzione. Ebbene, andrà al processo di Norimberga come esperto, e lo era!
Iosif Stalin, il padre delle nazioni nel culto, conquista tutto il potere ben piantato sulla burocrazia che ruba il potere alla classe operaia, come aveva predetto Trotsky. Sboccia un fiore marcio: la nuova classe, i burocrati. Hanno tolto i padroni e si rifanno padroni. Lo spiega doviziosamente Milovan Gilas in un suo testo che gli costò 9 anni di carcere ma che gli permetteva di dire: “se non fosse vero quello che scrivo non mi troverei qui.” Lenin & C. predicavano e garantivano l’abolizione delle classi! I burocrati erano come radici che Stalin a suo piacimento tagliava e rinvasava.
Quello che colpisce e in parte resta inspiegabile è la ripetitività del destino dei funzionari da loro supinamente accettata. La Ceka diventa NKVD nel 1922, Jagoda è membro e capo, lavora alle purghe, implacabile nell’esecuzione degli oppositori. Arrestato e processato confessa diversi omicidi come gli hanno proposto e spera in una sentenza mite. Viene egualmente giustiziato con la moglie. Ezov prende il suo posto e con lui gli arresti e le fucilazioni raggiungono l’apice, e poi sarà anche lui fucilato per aver complottato contro Stalin!
Milioni le vittime imputabili alle conseguenze della rivoluzione sovietica, ormai tutto documentato ed accolto. Un’enormità! Numeri asettici, anonimi, ma ognuno è una persona con occhi, mani, e il suo bagaglio di speranze, illusioni, insomma di vita. E in quei numeri c’è una briciola nostra. Qualche centinaio di italiani scappati dal fascismo e rifugiati “nel paradiso dei lavoratori.” Prelevati vengono condotti nei sotterranei della Lubjanka dove sono torturati fino a che non confessano e quelli che evitano il muro sono deportati nei campi siberiani, nei campi di “lavoro correttivo”.
Esiste una vasta testimonianza sull’argomento di quelli che sono riusciti a ritornare. Palmiro Togliatti, pseudonimo Ercole Ercoli, è presente a Mosca, risiede nell’hotel Lux riservato ai leader emigrati. Nella notte avvengono quella strane sparizioni ma nessuno osa fare domande, nemmeno lui. E tanto meno si interessa della persecuzione dei compagni italiani. Già c’è l’inghippo della famosa lettera di critica di Antonio Gramsci data a lui per consegnarla a Stalin. Naturalmente se n’era guardato bene! Togliatti riferendosi a Gramsci sembra che abbia ammesso: “Se fosse stato qui con il suo parlare schietto sarebbe finito male.” Come è accaduto con i componenti di altri partiti esteri convenuti e deceduti, aggiungo.
Gramsci, rinchiuso a Turi, si considerava prigioniero del carcere fascista e dell’apparato del suo partito. Era convinto che i dirigenti del partito comunista italiano lo ritenessero un eretico e lo volessero recluso. Si parla di un ultimo quaderno dissenziente, scritto da lui, sottratto e scomparso. Anche per lui ci sarà il dubbio di una tisana malefica. Dopo la sua morte la vedova e la cognata, Julia e Eugenia Schucht, scriveranno a Stalin di cercare un traditore. Il nome non è fatto ma gli indizi portano a Togliatti.
Certo, in quei tempi dell’hotel Lux i rischi erano elevati anche per Togliatti. L’apparato repressivo lo sfiora arrestando suo cognato, Paolo Robotti, come nemico del popolo. Questi se la caverà fortunosamente con soli due anni di Taganka, carcere di Mosca. Nel 1944 Togliatti è in Italia a propugnare la “svolta di Salerno” con il plauso di Stalin, perché non ha chiesto la liberazione dei compagni nei gulag e ancora vivi?
Senza il golpe dei bolscevichi anche un bellimbusto come Kerensky, con la coalizione dei socialisti, sarebbe bastato a rimettere in auge il Paese e il prezzo umano pagato non sarebbe stato così alto. Lui era poca cosa e il pomeriggio si pasticcava, ma un suo governo sarebbe stato di sicuro sufficiente per l’industrializzazione. Magari questa sarebbe stata più lenta ma salvato vite umane, non sarebbe stata quella frenetica corsa mortale.
La storia è come una bella signora ma essendo storia è datata. Quando ci si avvicina non si deve cedere alle sue lusinghe, ai suoi vezzi. Occorre struccarla, osservarla senza cerone. Così è necessario fare con la rivoluzione russa. Per mantenere una sembianza romantica, esaltare il pathos, con lo sfruttamento dei media, tutti i misfatti vengono attribuiti a Stalin. No, “Baffone” non ha fatto altro che percorrere il sentiero tracciato e indicato da Lenin. Lo ha compiuto alla grande, come un Ivan IV il Terribile, un Gengis Khan, questo sì. Con il suo vigore all’apparenza bonario ha saputo colpire, oltre gli oppositori, anche gli stalinisti, questa la sua originalità. Victor Serge conferma che la colpa è antecedente: “il germe dello stalinismo esisteva già nel bolscevismo dalle origini.” La purga era già un embrione di Lenin. Lo zar Nicola II e la sua famiglia sono stati trucidati a Ekaterinburg con l’avallo di Lenin.
Se ti immergi in quel periodo libero dalla retorica romanzata, passeggi nella Prospettiva Nievskij, senti il fetore di un cadavere putrefatto, in decomposizione. La terra sputa l’olezzo di un gregge immolato da un pastore che era preda di una follia di onnipotenza. Le pagine sono intrise del sudore degli schiavi del lavoro e ti ritrovi le mani sporche di sangue.
Ogni tanto qualcuno fugge dall’eden rosso racconta e… non viene creduto. Viktor Kravcenko chiede asilo politico all’America e pubblica nel 1946 ”Ho scelto la libertà”, per rappresaglia trenta suoi parenti rimasti nella santa terra sono uccisi. I partiti comunisti europei lo accusano di falsità e deve far causa a un giornale francese. Vincerà ma… Aragon e la madre morente: “Cosa dice Stalin?” Kravcenko si suiciderà, aiutato forse dalla N.K.V.D. che aveva scoperto il suo nascondiglio. Ma quando i complici ideologici di questa grande strage si batteranno il petto belando mea culpa, mea culpa?
E quando finalmente con il XX Congresso del Pcus e Chruscev sarà sancita la destalinizzazione c’è la sorpresa: non c’è controparte, non ci sono avversari da risarcire. Stalin, l’uomo d’acciaio, li ha sterminati tutti!
Una storia di nefandezze immani che ha ancora i suoi seguaci, in Italia e nel mondo. Odiare i comunisti è un imperativo etico.