Lo scarraboat è lo scarabeo stercorario così battezzato in una delle splendide intuizioni e invenzioni del traduttore Nicola Cadoni per la messinscena di “La Pace” di Aristofane al Teatro Greco di Siracusa con la regia di Daniele Salvo .
Lo scarabeo – disegnato da Michele Ciacciofera, artista della sinestesia della materia che ha curato le installazioni della commedia -, diventa un elemento a metà tra un rovesciato deus ex machina e una macchina ottovolante: il regista Daniele Salvo vi sospende il vignaiolo Trigeo, interpretato da un Giuseppe Battiston non sorprendente, in missione da Zeus per tentare di mettere fine alla guerra che da troppi anni sta devastando il Peloponneso. Sull’Olimpo trova solo Ermes (straordinario Massimo Verdastro, il migliore in scena anche nei panni di Ierocle, l’indovino) che sta curando il trasloco degli dèì stanchi della guerra degli uomini. Un Olimpo epicureo e lucreziano che abbandona gli umani alla mercè di Polèmos (Patrizio Cigliano), personificazione della guerra, e del suo servo Macello (Gaetano Aiello), mandato dal padrone a cercare pestelli e mortaio con cui triturare i Greci e a chiudere in una caverna Eirene, la pace. Trigeo, chiamato a raccolta il popolo degli ultimi e dei lavoratori di tutta la Grecia in guerra, libera Eirene e torna ad Atene per raccogliere i frutti della sua impresa, degna antesignana di tutta la letteratura cavalleresca a venire fino ad Ariosto o meglio ancora a Ruzzante e Pulci.
“La Pace” è la commedia più complessa di Aristofane. Per l’intreccio in cui scioglimento coincide con il climax (la liberazione della Pace) che a sua volta diventa una peripezia e la conclusione arriva a più riprese, o meglio “si sfarina in una serie di scene slegate” (Walter Lapini) tra il pittoresco e il filosofico. Per le incursioni metaletterarie tra bacchettate a Euripide e la parabasi dell’orgoglio intellettuale dello stesso Aristofane, un vero manifesto di engagement. Per la straordinaria, questa sì pasoliniana (per il resto ogni riferimento a Pasolini, appare superfluo), capacità di Aristofane di predire uno scenario politico: la commedia fu messa in scena in occasione della Grandi Dionisie del mese di elafebolione (marzo/aprile) del 421 a.C., poco prima dell’imprevedibile e fragile pace di Nicia, che concluse la seconda fase della guerra del Peloponneso; nello scenario etico-politico si può considerare anche la sconfitta di Aristofane superato da un tale Eupoli con “Gli adulatori”. Per l’anabasi celeste- come la definisce Daniele Salvo- ovvero per la sintesi di ogni rovesciamento, fulcro tematico e linguistico del genere comico.
E’ la lingua l’elemento trionfante della messinscena di “ La Pace”. La traduzione di Nicola Cadoni è felice, ariosa, divertente nel senso più nobile. Di-verte ossia sposta l’asse dalla bulimia verbale propria della commedia greca, qui uno stercolario, a una nobiltà lessicale ed espressiva capace di ingerire (nomen omen) nel contemporaneo sia la scurrilità fallocratica e intestinale della tradizione comica sia il pluristilismo di Aristofane che mitiga proprio l’aiscrologia – ‘linguaggio scurrile che caratterizza alcuni casi di possessione – con la levità lirica (sia nei discorsi di Polemos pur con sospetto di ironia sia nel monologo finale di Eirene).
Le incursioni nella modernità sono nomi composti “scaravallo”, metafore irriverenti “Zeus Petonante”, prestiti “reception” o “tzatziki” o i francesismi coreutici ”pirouette a droite”, termini ammiccanti all’attualità “sanzioni” fino al contesto linguistico del “dir messa” contaminazione anche drammaturgica volutamente sospesa tra la blasfemia e la comicità. La lingua di Aristofane è una caleidoscopia di invenzioni, registri e dialetti. Ma la pluralità di dialetti scelta dalla regia, dal veneto al toscano alle parlate del siciliano, esorbita in maniera non sempre funzionale all’immediatezza della tavolozza comica. Servono di più alla comicità le scene iniziali dove il trionfo lessicale coprofagico non solo schiaffa lo spettatore dentro un mondo paradossale ma gli dà un mestolo e lo mette insieme ai servi di Trigeo (Simone Campi e Martino Duane che sarà anche Aristofane) a cucinare prelibate pizze di escrementi con tutto il fetore, che non c’è ma pare arrivare fin nella cavea grazie all’effervescenza elegante propria della lingua di Cadoni.
Eleganza è la cifra di questa messinscena di “La Pace” mai rappresentata a Siracusa e la meno frequentata tra le opere di Aristofane. Discusso fu l’allestimento del 1967 di Arnoldo Foà, accusato di non calcare abbastanza sulla satira politica in nome di un dovere di attualizzazione: in quell’edizione Foà interpretava anche Ermes e Aldo Fabrizi era Trigeo, corsi e ricorsi di fisicità in scena.
Daniele Salvo aveva davanti una sfida: portare sulla scena un testo calligrafico della poetica aristofanesca e tuttavia peculiare per la discrasia tra dinamicità e stasi – la seconda prevale sulla prima che termina a poco più di 500 versi dall’inizio ossia a due terzi del testo- e raccontare la guerra, tema oggi molto scomodo per un artista che corre un rischio multiplo: la retorica, la banalità, la noia. Il regista, formatosi con Ronconi, Martone e alla Royal Shakespeare Company (e si vede), ha affrontato la sfida e l’ha risolta con una vittoria di misura. Ha evitato il rischio della banalità perché il punto forte di “La Pace” è la sua chiara idea di regia, vera e attesa novità di questa 58 ͣStagione. Salvo, sebbene ceda nella parte finale alla retorica del tavolo dell’Onu e che avrebbe potuto ridurre la parte dei quadri finali, catartici per gli spettatori di Aristofane ma per il pubblico di oggi didascalici o macchiettistici come quella del mercante di falci (Paolo Giangrasso), fa sentire la sua presenza in scena con un’interpretazione del testo in corretto equilibrio tra tradizione e traduzione.
Non proprio una parodia di Prometeo ma del tutto dissimile dall’opportunista Diceopoli di “Acarnesi”, Trigeo di Daniele Salvo è l’incarnazione di un’utopia possibile, di un popolo che si faccia hegelianamente protagonista della storia e completa il romanzo di formazione di Aristofane. La politicità della commedia vira sulla scelta di smentire il finale bucolico e ottimista voluto da Aristofane con il banchetto profumato e “i fichi da succhiare”: Cadoni lascia σῦκον al maschile per evitare di abbassare il finale lirico con una deriva inutile verso il doppiosenso.
Il finale con lo sparo sulla festa finita di Trigeo è la partita giocata da Salvo, la sua parola assieme a quella di Aristofane, il realizzarsi della parabasi “Aristofane, con sdegno erculeo, ha attaccato i più potenti, muovendosi senza timore in mezzo alla melma e al fetore di cuoio marcio e sordide minacce”: la politica del magna magna, degli uomini in doppiopetto e senza un volto. A Daniele Salvo va il ringraziamento di aver risparmiato allo spettatore una sfacciata identificazione dei due pestelli Cleone e Brasida con Putin e Zelenski: non glielo avremmo perdonato. Mentre gli perdoniamo di aver riempito la reticenza del testo con un enorme fallo, regalo di nozze per Trigeo e Opora: e che commedia sia!
Se Trigeo incarna gli aristofaneschi genialità comica, quando ha la felice idea di usare a mo’ di Pegaso quello scarabeo che gli consuma quintali di escrementi, e pragmatico eroismo, quando cambia il piano strategico e si fa maestro di pace per i greci, Salvo di suo porta all’estremo il momento della coralità già presente in Aristofane amplificandola con i costumi, le musiche, i canti e i cori. Sui cori va fatta una chiosa.
La Stagione 2023 va ricordata come la stagione dei cori. In tutte e tre le rappresentazioni classiche il punto forte è stato il coro grazie alle diverse direzioni, grazie alla preziosa presenza di Simonetta Cartia e di Elena Polic Greco (qui recita la Pace nel monologo finale), grazie alla garantita bravura degli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico, grazie agli attori nei panni dei corifei e delle corifee. “ La Pace” si avvale di un coro eccellente- spiccano Giancarlo Latina e Simone Ciampi– che ha occupato la scena (coreografie e movimenti di Miki Matsuse) con sapienza e versatilità.
Per le musiche Patrizio Maria d’Artista ha pensato a passaggi di testimone: dalla solennità degli strepiti d’armi al tappeto sonoro sacrale alla “Jesus Christ Superstar” fino alla doppia citazione del brindisi di “La Traviata” di Verdi e alle musiche balcaniche di Goran Bregović che animano la scena del banchetto finale e i saluti. La musica imperversa come doppia drammaturgia tanto da far scivolare in qualche punto verso la commedia musicale: c’è pure un tocco di Garinei e Giovannini?
Ai costumi il palmares dello shock ottico. Daniele Gelsi ha creato costumi di straordinari significato e bellezza. Dopo le sfumature metalliche e buie delle scene belliche e il nero Polemos ( Patrizio Cigliano), irrompe la cromia della terra dal marrone al giallo ocra e crea l’effetto di una teoria di dipinti di Van Gogh ma allegra, coniugata alla dimensione onirica di Hieronymus Bosch come nel cappello di nobile organza in testa a un contadino. Costumi che servono la verticalità dallo scintillante abito queer di Ermes agli scudi di paglia del coro, dai veli delle dee Opora (Federica Clementi) e Teoria (Gemma Lapi) e della Pace danzante (eterea e sinuosa Jacqueline Bulnès) alle armature e alle vesti del popolo fino ai copricapi buffi delle figlie di Trigeo, facsimile di Anastasia e Genoveffa (interpretate da Francesca Maria e Stella Pecollo) perché la favola è presente insieme a certe epifanie di commedia shakesperiana nella danza di Pace. Il cromatismo invade la bella scenografia di Alessandro Chiti che mette al centro, tra due cubi – la casa di Trigeo e la sua fabbrica di sterco- una sfera riflettente che sovrasta la Terra e una cartina geografica del Mediterraneo che sarà risucchiata dalla botola al centro della scena.
Da lì riemergerà la Pace per poi sparire tra le maglie di questo stratificato testo di Aristofane, dove il rovesciamento comico non è affidato solo alle diastole e sistole della pancia ma con più raffinatezza intellettuale anche all’etica di Trigeo e del suo autore Aristofane: il quale tutto preso a deridere Euripide e Omero, si è accorto di aver ammiccato a “Eumenidi” di Eschilo?
Foto di Ballarino, Centaro e Pantano