In un contesto nel quale sembra che l’impegno maggiore di Giorgia Meloni presidente del consiglio sia quello di fare cose diverse da quelle che magari i cittadini si aspettavano da lei, è sicuramente un buon segno il tentativo di porre al centro del dibattito politico le riforme istituzionali, imponendo anche alle opposizioni l’attenzione sul punto.
L’idea di chiamare le forze politiche di minoranza a discutere di questioni che già appaiono difficili da far condividere a tutti all’interno di una maggioranza consolidata, è una scelta coraggiosa e anche un po’ furba nella prospettiva che qualcuno della coalizione, magari recalcitrante, possa essere sostituito al termine di un dibattito sul merito.
Tuttavia emerge un errore di strategia. Porre le questioni istituzionali aperte in termini di dibattito sull’idea di repubblica presidenziale, elezione diretta del capo dello stato o del presidente del consiglio appare un po’ troppo frettoloso.
Il presidenzialismo agli occhi di molti e non solo a sinistra, è stata la battaglia di Giorgio Almirante e del Msi degli anni Ottanta ed al contempo è stata la proposta di Bettino Craxi ai tempi in cui cercò – egli per primo, Berlusconi da fido continuatore è venuto dopo – di sdoganare la destra parlamentare a supporto del tentativo di rompere l’apparentemente inamovibile centralità democristiana e il patto di potere fra Dc e Pci.
Ce n’è abbastanza per soffocare il bambino nella culla o quanto meno per una bella orticaria.
Prima che sulla soluzione, Giorgia Meloni farebbe bene a sfidare le opposizioni (ma con esse l’intera classe politica attuale) sui problemi principali, che sono essenzialmente due: 1) lo scollamento fra paese legale e paese reale (per dirla con Maurras), ovvero la mancanza di collegamento fra eletti ed elettori, almeno da quando la cinghia di trasmissione che il sistema affidava ai partiti si è definitivamente spezzata, per cui chi è eletto rimane con le mani libere e può compiere ogni scelta possibile di schieramento e di governo; 2) la farraginosità del meccanismo di formazione dell’indirizzo politico all’interno delle istituzioni che ha reso di fatto impossibile far perno sulle camere elettive.
Sotto il secondo profilo, in particolare, non basta lamentarsi della scarsa centralità del parlamento nella vita politica concreta, con le camere ridotte a mere sedi di ratifica delle scelte legislative (e quindi politiche) del governo, per credere che la soluzione stia nel riavvolgimento del nastro con un impossibile ritorno al sistema dei partiti e della politica che fu e non a caso non c’è più.
I problemi da risolvere appaiono molti e fra questi in primo luogo quelli di principio.
Non regge più l’idea che la principale manifestazione dell’indirizzo politico con cui si governa una nazione stia nella attività legislativa, così come non regge più l’idea che la fonte di quest’ultima risieda nel parlamento, composto di due camere fotocopia le quali, dopo l’abolizione della differenza di età tra gli elettori di camera e senato, non hanno più alcuna ragione, nemmeno residua, di convivere.
Un grandissimo numero dei provvedimenti di carattere normativo di cui il paese ha bisogno vengono presi, ben oltre i limiti posti da una costituzione ormai sul punto fortemente emendata, attraverso i decreti legge del governo, poi quasi pedissequamente convalidati dalle camere. E persino le leggi sfornate dal parlamento risultano per la stragrande maggioranza nate da disegni e non da proposte di legge, cioè sono di iniziativa del governo e non parlamentare. Per tacere di atti fondamentali come le leggi di bilancio e di programmazione economica che possono nascere solo ed esclusivamente da iniziative governative.
Come dire che, nella centralità politica del sistema, l’esecutivo ha messo nell’angolo l’organo rappresentativo e, vista la libertà di scelta esercitata dai rappresentanti del popolo nella formazione di governi ben poche volte rispondenti agli indirizzi ricevuti, si può concludere che l’attuale sistema istituzionale italiano vede le scelte politiche formarsi e concretizzarsi non già dove la nostra forma di democrazia rappresentativa ha posto i rappresentanti della volontà popolare, ma nella sede che non a caso i costituzionalisti avevano qualificato come esecutiva.
Semplificando: nel nostro attuale ordinamento la democrazia vivacchia in parlamento, ma il potere politico è altrove, nel governo per l’esattezza.
Non è un fenomeno o una tendenza nuova del sistema. Al contrario ha radici lontane, persino più vecchie dell’attuale costituzione e non è soltanto italiano.
Una proposta che si ponga, quindi, come soluzione al problema essenziale della crisi della democrazia italiana, deve partire da questa esigenza di trovare un nuovo e diverso raccordo fra la volontà popolare e l’azione di governo del paese, affinché siano tra loro coerenti e conseguenti. Per questo un governo sensibile ed impegnato dovrebbe sfidare oggi le forze politiche a confrontarsi non già su formule predefinite (presidenzialismo, premierato, sindaco d’Italia, ecc.), ma sul modo di collegare nuovamente eletti ed elettori, corpo elettorale e classe politica, consentendo ai primi di determinare o almeno condizionare direttamente con le proprie indicazioni le scelte di chi concretamente esercita la funzione di governo.
Ai cittadini bisogna chiedere di intervenire direttamente con lo strumento elettorale, in primo luogo, sugli organi di governo, affidando loro nella massima trasparenza di intenti la funzione di gestire il presente e il futuro della nazione, ma anche sottoponendoli all’onere della responsabilità politica soggetta alla verifica e al giudizio del corpo elettorale.
Ciò non significa suscitare occasioni di indebita concorrenza fra un governo scelto dal popolo e gli organi di rappresentanza di quest’ultimo perché basterebbe definire le competenze e le compensazioni per evitarlo, ma la necessità e ormai l’urgenza sta nel definire il nuovo modello di democrazia rappresentativa di cui l’Italia ha bisogno.
@barbadilloit
Articolo interessante. Trarrei le seguenti conclusioni: 1)abolizione del senato, mera fotocopia della camera;2) dare dignità legislativa al CNEL; 3) ridisegnare l’ordinamento territoriale abolendo regioni e province e sostituendole con 36 dipartimenti
Formalmente la Presidente Meloni ha fatto bene ad incontrare le “opposizioni”, ma visto il prevedibile, pregiudiziale e preconcetto no alle riforme delle sinistre con ascendenze discendenza comuniste – equivalente al no preconcetto e pregiudiziale della CGIL in tema di lavoro- ora la maggioranza deve andare avanti sul Presidenzialismo. Lo deve fare per quanto annunciato e deve denunciare, fin da adesso, il cataclisma che le Sinistre scateneranno contro il Referendum. Sarà poi il popolo a decidere se andare avanti approvando le riforme, oppure farsi strumentalizzare dalle sinistre comuniste e
conservative.
Giusto. Fu una battaglia senza molto senso (in Europa non esiste la repubblica presidenziale ed in America Latina dà scarse prove) dell’era Almirante. Adesso non gliene frega niente a nessuno. Semmai un cancellierato alla tedesca.
Almirante il dattiligrafo di Salò