La proposta di legge di Fabio Rampelli per la tutela dell’Italiano ha suscitato il solito vespaio di polemiche, come al solito, sollevate più provocatoriamente su preconcetti e presunzioni che non sui contenuti reali della proposta. Queste polemiche hanno censurato soprattutto il principio delle sanzioni che si comminerebbero a chi usasse, abusandone, termini ed espressioni in lingua straniera potendo invece utilizzare l’equivalente in italiano.
Ci si è dimenticati dell’ondata di indignazione che sollevò durante il periodo della pandemia il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, nelle sue conferenze- stampa o in Parlamento, non esitava a condire abbondantemente il suo politichese con inglesismi e forestierismi a volontà. Ad insorgere furono l’Accademia della Crusca e il Prof. Sabatini che riprese più volte l’argomento nella sua rubrica televisiva della domenica mattina su Rai 1.
C’è stato un tempo in cui si è creduto che per accelerare il processo di unificazione europea, prima ancora che avere un governo comune, un esercito comune, una politica estera comune ed una moneta comune, fosse necessario avere una lingua unica. Così nacque l’esperanto, una sorta di lingua creata in laboratorio, con l’ausilio dei primi algoritmi informatici, come una sorta di “luogo geometrico” tra tutti gli idiomi delle singole nazioni che si ritrovavano ad abitare il Vecchio Continente.
Negli anni ’80 si è preso atto del fallimento dell’esperanto e si è iniziato a ragionare su di un altro versante. In verità già nel 1977, con la Raccomandazione n. 814, si sottolineò l’importanza di preservare “la diversificazione” delle lingue nazionali, intesa come ricchezza e non come un limite, e si pensò ad identificare per ogni lingua europea un “livello soglia” (treshold level o niveau seuil), inteso come un minimo comun denominatore di strutture e competenze linguistiche volto ad assicurare livelli di accettabile comunicazione tra europei di diversa estrazione nazionale.
Il punto di svolta vero e proprio si ebbe nel 1986 allorché il Consiglio d’Europa, durante la 38^ sessione, approvò all’unanimità una relazione dal titolo “L’eredità culturale e linguistica dell’Europa”, la cui redazione fu affidata per la prima volta ad un parlamentare italiano. Questo compito prestigioso quanto delicato toccò a Pino Rauti.
Quali i punti più salienti e più pertinenti di quel rapporto? Nell’introduzione si afferma il principio della diversità linguistica come fondamento dell’identità europea. Dice testualmente la relazione: ‹‹La diversità di linguaggi dell’Europa è il centro della sua identità culturale. Un linguaggio non è esclusivamente un mezzo di comunicazione ma riflette anche una storia, una civiltà, un sistema di valori.››. Per dimostrare il fondamento e la validità di tale assunto si snocciolavano citazioni da Peguy, Braudel, addirittura da Gramsci.
Nella relazione si accennava anche al pericolo rappresentato dall’avvento dell’informatica e delle nuove tecnologie che già da allora sembravano paventare il rischio che il loro linguaggio standardizzato e “meccanizzato” si potesse sovrapporre alle lingue nazionali finendo per impoverirle e ridurle allo stato della neolingua orwelliana di “1984”. Di qui la necessità di ‹‹prendere specifiche azioni per incoraggiare un uso più creativo del linguaggio, lo sviluppo della letteratura e un’intensificazione della lettura.››
A parere del Consiglio d’Europa un’azione indispensabile e preliminare ad ogni altra cosa, per salvaguardare la diversità linguistica e l’esistenza stessa delle varie lingue europee, era quella di rafforzare le capacità linguistiche di base e di comprendere i documenti letterari scritti: ‹‹Per assicurare che il popolo possa esprimersi con la lingua e la letteratura, deve essere presa un’azione specialmente nel campo educativo. Le scuole, dal livello materno in poi, devono dare agli allievi delle solide fondamenta nella loro lingua natale, nel campo dell’espressione autonoma scritta e orale.››
La fissazione da parte della già citata Raccomandazione n. 814/1977 dei così detti “livelli soglia”, invece di evitare tali rischi, per molti versi li ha accentuati e moltiplicati poiché, nella pratica, essi sono stati intesi più come obiettivi finali che non come livelli di partenza in vista di un ulteriore accrescimento e miglioramento delle capacità comunicative e della ricchezza lessicale, strutturale e morfologica degli idiomi nazionali. ‹‹Come il suo stesso nome indica, il “livello soglia” è soltanto il punto iniziale, sebbene essenziale, per l’apprendimento delle lingue. Esso deve essere seguito in misura ben più profonda (letteratura ecc.) ed essere esteso: in linea di principio ognuno dovrebbe essere capace di usare almeno due lingue straniere.»
Lo stesso inglese, con questo processo di standardizzazione indotta dai treshold levels e dall’uso come “linguaggio informatico” che se n’è fatto, pur diffondendosi a progressione geometrica in tutto il pianeta, ha finito per impoverirsi in termini di varietà, di capacità di comunicazione profonda ed eleganza linguistica smarrendo del tutto i connotati dell’idioma che fu di Shakespeare, Coleridge, Dickens e Joyce.
Dopo una lunga ed articolata diagnosi dello stato delle lingue europee seguiva nella relazione vergata da Pino Rauti un’attenta ed accurata prognosi per affrontare e risolvere il problema ed evitare la scomparsa o il declino di prestigiose e nobili lingue nazionali nelle quali le grandi menti europee, da Dante a Shakespeare, da Goethe a Hugo, da Cervantes a Kafka, si sono espressi.
Detta in breve essa consisteva nel disporre che nei sistemi scolastici europei, ad iniziare almeno dalla scuola media di I grado, si potessero apprendere almeno due lingue straniere europee. Di fatto, in tal modo ogni europeo veniva a possedere gli elementi basilari (livello soglia) di almeno tre idiomi nazionali, compreso quello nativo. ‹‹E’ questo il modo per avviarsi ‒ sottolineiamo avviarsi ‒ efficacemente sulla via dell’integrazione linguistico – comunicativa e al tempo stesso conservare e preservare la propria specificità linguistica e quindi anche culturale.››
In Italia, contrariamente a vari altri paesi europei attestati su di un incomprensibile e gretto sciovinismo linguistico, questo discorso fu avviato alla fine degli anni ’80 con l’introduzione della seconda lingua straniera nella scuola media di I grado, nel liceo scientifico e nel liceo classico (in quest’ultimo indirizzo una sola lingua straniera, in precedenza, veniva studiata per solo due anni al biennio iniziale). Per l’istituto magistrale e per alcuni istituti tecnici e professionali si passò a studiare una lingua per l’intera durata del corso scolastico ed una seconda lingua per il solo biennio iniziale.
Adesso assistiamo al paradosso che, per certi versi, rischia di coprirci di ridicolo, per cui in Europa la lingua comune è di fatto l’inglese, cioè la lingua ‒ madre di una nazione che, dopo la Brexit, è uscita dall’Unione Europea. Che il concetto di “sovranità linguistica” non sia un concetto astratto ed esiziale, ce lo rivela il fatto che alcuni anni fà la Cina ha provato ad inserire nel sistema scolastico italiano lo studio e l’apprendimento del cinese offrendo docenti, strutture e materiali gratuiti.
Il Consiglio d’Europa, sotto la propulsione intellettuale di Pino Rauti, vide con largo anticipo cosa si stesse preparando sul piano della conservazione e della tutela dell’identità linguistica che rappresenta la quintessenza dell’identità culturale e nazionale; per altri versi della stessa identità europea se ancora se ne può parlare.
Lingue franche della diplomazia e corti europee furono prima l’italiano, nel rinascimento, e poi il francese, dall’inizio del ‘600. L’inglese da dopo la WWII. Detesto anch’io l’italish, ma non vedo come frenarlo. Tanto meno con multe… E poi che cosa ci mettiamo al posto dell’inglese, realisticamente? Forse il ridicolo catalano? Opportuno ed urgente insegnarlo bene, sul serio, giacchè anche i balcanici, non solo i nordici, lo parlano assai meglio di noi… Pure Guglielmo II volle l’insegnamento dell’inglese nella scuole tedesche al posto del latino, a fine ‘800… Le lingue hanno cicli vitali, facciamo un po’ di darwinismo linguistico…
L’esperanto, nato 100 anni prima, era fallito ben prma del 1980…