Un titolo così, Open, per un libro appartenente al genere letterario delle biografie appare inevitabilmente scontato. Un’autobiografia ha, infatti, il compito (ed il pregio) di aprire varchi e svelare retroscena altrimenti irraggiungibili, è come una mano che rimuove un po’ di polvere dagli angoli di una fotografia, un’immagine stampata, confezionata ed impressa nella mente di tutti mostrandola interamente per la prima volta. La mano in questo caso è quella di Andre Agassi e con ogni probabilità non è la stessa che è sempre stato solito usare, quella destra, con cui ha infilato un set dopo un altro fino ad arrivare in cima alla classifica ATP, ha dominato qualsiasi circuito di tennis ed ha riempito la bacheca con ogni tipo trofeo possibile, perché qui di scontato non c’è proprio nulla.
Agassi più che scostare un po’ di polvere ha sollevato un polverone ed aperte sono rimaste le bocche dei lettori, critici, tifosi o semplici curiosi che siano. A dire che non è un semplice libro sul tennis si rischierebbe di essere banali, ma soprattutto significherebbe essere superficiali, perché i temi principali sono altri. In primis la contraddizione, perché essa è ciò che stata la vita del tennista più vincente di sempre.
In poco meno di 500 pagine, l’autore, con l’aiuto del premio Pulitzer J. R. Moehringer, ripercorre tutta la sua carriera. Ci racconta la preparazione ad ogni torneo, gli immensi sforzi fisici e i conseguenti dolori, elenca gli incontri giocati descrivendone meticolosamente quasi ogni punto, ci rivela i rituali scaramantici e descrive la soddisfazione per le vittorie e la frustrazione per le sconfitte, la cui importanza dipende, più che dal match, dall’avversario, del quale non dimentica mai di stilare una scheda tecnica; ma tutto ciò soltanto dopo aver fatto una scioccante premessa confessione: “Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore”.
Così, se si riesce a non soffermarsi troppo a lungo sull’interrogativo, un po’ ingarbugliato, di come abbia fatto uno che odiava ciò che faceva a farlo in maniera, fin ora, ineguagliabile, si coglie poi solitudine di un eterno ragazzo che ha avuto come padre un tiranno allenatore e di conseguenza ha fatto del suo primo vero allenatore, Gil Reyes, un padre, spacciandolo per un bodyguard. La solitudine, come la contraddizione, riaffiora padrona in ogni capitolo del libro, sin dall’inizio, quando Andre ci parla della solitudine del tennista, terribile ed imparagonabile a quella di qualsiasi altro sportivo, nemmeno a quella del boxer che “almeno” può godere del contatto fisico con suo avversario e della voce del suo coach nell’angolo, o quando, meno esplicitamente, emerge dalla sua incapacità di relazionarsi con le ragazze per cui troppo facilmente perde la testa, o ancora quando si rifugia nello “sballo” da metanfetamine rischiando una lunga squalifica o in un look punk. L’orecchino, la cresta meshata, lo smalto sulle unghie e gli incontri disputati in short jeans tagliati a mano sono la vana richiesta di farsi cacciare dall’Academy di Nick Bollettieri, emblema di quel mondo di cui non vuole far parte. Uscirne da solo è impossibile, perché impossibile è prendere una decisione se non si è mai stati liberi di farlo.
Con Open Andre Agassi chiude un conto lasciato aperto per troppo tempo, mettendo a segno la sua ultima vittoria, la prima personale e forse la più bella.