Mai tradotto in italiano, Matelot – “Uomo di mare”, questo è il titolo della prima traduzione italiana, ora in libreria per Robin edizioni nella collana “Biblioteca del Vascello” – è il meno conosciuto dei romanzi della trilogia marina di Pierre Loti. Pubblicato nel 1893, racconta la storia di Jean Berny che, non avendo superato gli esami alla Scuola navale, decide di arruolarsi come semplice marinaio (il matelot del titolo originale) nella marina mercantile. Come in Mon frère Yves e Pêcheur d’Islande, Loti utilizza anche in questo romanzo la sua esperienza di ufficiale di marina, ma traspone nel carattere del protagonista la vita del suo amico e “fratello ideale” Léopold Thémèze, pur conferendo all’eroe della vicenda un diverso e tragico epilogo.
Pierre Loti conosce un notevole successo in vita, a cavallo tra Ottocento e Novecento, con una serie di romanzi, novelle, racconti e resoconti di viaggio, mediante i quali Julien Viaud – questo il vero nome dell’autore – avvicina al lettore francese ed europeo territori al tempo ancora avvolti da fascino e mistero – dal Giappone imperiale a Tahiti, alla più vicina ma altrettanto fiabesca e misteriosa Turchia degli Ottomani – in un intreccio di colore locale e sensazioni personali che l’autore descrive con appassionato afflato lirico.
Per comprendere la fortuna di Loti è necessario risalire alle tendenze “antinaturaliste” della letteratura francese dell’Ottocento, e ricordare, ad esempio, che lo scrittore conquista il tredicesimo seggio dell’Académie française, in concorrenza con Émile Zola, in nome di un’arte raffinata e contro la realtà borghese, sulla scia dei tradizionalisti alla Brunetière.
All’apprezzamento del suo pubblico, si unisce quello di critici e scrittori di primo piano quali Alphonse Daudet, Edmond de Goncourt, Maupassant, ma anche di scrittori stranieri, come Henry James, J. A. Symonds, Gabriele D’Annunzio e Friedrich Nietzsche. Se Nietzsche annovera Loti nella schiera degli scrittori contemporanei di suo gradimento (Bourget, Gyp, Meilhac, Anatole France, Lemaître, Maupassant), dei quali apprezza l’intrecciarsi di un’attenta analisi psicologica, unita a curiosità e delicatezza, anteponendoli alla generazione «dei loro grandi maestri […] tutti corrotti dalla filosofia tedesca», Gabriele D’Annunzio è affascinato dalle «visioni oceaniche» dell’autore di Mon frère Yves sulle quali vede aleggiare «una dolce aura di malinconia e di nostalgia».
A proposito della trilogia mistica di Loti, e più precisamente in riferimento al Désert e alla Galilée, D’Annunzio in una conversazione con Ernest Tissot sulle pagine della “Revue bleue” parlerà di «taches d’humidité», simili a quelle che i discepoli di Leonardo cercavano sui vecchi muri. Per il poeta italiano si tratta di testi ricchi di cose inedite, espresse più per insinuazione che per parole, che «contiennent sans paradoxe, pour ceux qui savent comprendre, l’infini de la pensée religieuse et toute l’âme du désert et de la Galilée bénie».
Proveniente da una famiglia protestante, di lontana ascendenza ugonotta, da un lato abbandona ben presto la fede. Ma parallelamente comincia a nutrire simpatie per l’Islām, oltre che per la civiltà ottomana. Si lega in un’amicizia avvolta da mistero con Abdül-Hamid II, il terribile «sultan rouge», e vede in lui un «eroe romantico» quale Lamartine vedeva nel principe Bashir del Libano. Loti si sente impregnato dell’aria di «calme et d’harmonie, de détachement et de pardon» che si respirava nelle moschee, tanto da commissionarne lui stesso una in patria per custodirvi «la stele della sua adorata Aziyadé».
Matelot, il romanzo qui presentato, completa la trilogia dei cosiddetti “romans de la mer”, dopo Mon Frère Yves e Pêcheur d’Islande. Nel doloroso e tragico racconto si ritrovano gli stessi pregi che caratterizzano gli altri lavori. Ma con nuovi personaggi Loti ha qui descritto un carattere e costumi diversi. Jean Berny, dopo aver fallito l’ingresso nella marina militare, si arruola come semplice marinaio nella marina mercantile.
Il romanzo, malgrado la sua estrema semplicità, è costruito su una idea morale e filosofica ben precisa: l’idea che la vita è, per sé stessa, la più inesplicabile delle cose, e anche la più triste, quando sia oscurata, spenta, la visione d’oltretomba. Loti sembra dirci che se all’ingiustizia terrestre non si contrappone la speranza in una giustizia futura e trascendentale, l’infelice deve abbandonarsi ad una disperazione da cui non gli è, in alcun modo, possibile di salvarsi. Dal momento che la ragione ha messo nel mondo il concetto della giustizia, l’uomo non può più subire, con un fatalismo incosciente, l’infelicità immeritata.
Infine, tra coloro che ebbero modo di leggere il romanzo alla sua uscita, ci preme ricordare Henry James, grande estimatore di Loti, al quale Matelot piacque molto. In una lettera del 1893 a Edmund Gosse, poeta e critico letterario inglese, ricordando con quanta gioia ed emozione aveva riletto il romanzo, esortava l’amico a riguardare un passo particolarmente felice che era stato citato anche nei suoi Notebooks:
Così, a poco a poco, quei due esseri cominciavano ad amarsi con un’uguale tenerezza purissima. Lei, ignara di tutte le cose dell’amore e solita leggere ogni sera la Bibbia, era destinata, tuttavia, a rimanere inutilmente fresca e giovane, ancora per alcune altre pallide primavere, e poi ad appassire, a invecchiare fra quelle vie e quei muri sempre uguali, immutabili… E Jean intanto, che dell’amore conosceva già tutti i lati materiali, avrebbe continuato ad errare per il mondo, sarebbe forse partito domani per non ritornare mai più e per lasciare il suo corpo a qualche mare lontano…
* Uomo di mare, di Pierre Loti, (Robin. – 2023: pagg. 132 – euro 16)