Nel 1913, alla sua uscita nelle librerie americane, Chance, di Joseph Conrad (che ora torna in una nuova edizione italiana: Il caso, Adelphi, pagg. 400, euro 20; traduzione di Richard Ambrosini), vendette diecimila copie nella prima settimana e trasformò il suo autore da romanziere amato dalla critica in romanziere amato dal pubblico.
Ancora nel 1907, quando l’uscita di L’agente segreto l’aveva imposto definitivamente all’attenzione della prima, Conrad era uno scrittore che non aveva i soldi sufficienti per pagare le cure mediche necessarie ai figli, e il suo stesso fisico aveva preso a tradirlo molto prima dell’ispirazione e della capacità di metterla in pagina: malaria contratta in Africa, problemi di cuore e di gotta, depressione… Quattro anni dopo il successo de Il caso si descriverà come un uomo «spaccato, sconnesso, impossibilitato a concentrarsi su qualcosa di positivo. È la guerra forse? O, semplicemente, la mia fine?». Pure, quello è anche l’anno in cui esce La linea d’ombra, un po’ il suo canto del cigno: da allora e sino alla morte, nel 1924, le sue lettere racconteranno una decadenza fisica e intellettuale a cui egli bravamente continua a opporsi, ma che non è più in grado di sconfiggere. Del 1919 è La Freccia d’oro, forse il suo peggior romanzo, a dimostrazione di come fino all’ultimo egli comunque non rinunci: nonostante tutto, a dispetto di tutto.
Da Il caso in poi, dunque, ci si cominciò a interrogare sul perché la fama avesse preso a raggiungerlo grazie a dei titoli che invece sembravano secondari, inferiori rispetto agli exploit del passato. Per cercare di capirne di più si può prendere un altro dei suoi cosiddetti “romanzi minori”, Il salvataggio, per esempio, uscito nel 1919 anch’esso con grande successo di pubblico, ma relegato dagli studiosi come ennesima prova della decadenza dei suoi ultimi anni. Eppure, era un testo che giaceva sulla sua scrivania da quasi vent’anni, coevo cioè al tempo della sua maturità come scrittore.
Che cosa glielo aveva fatto lasciare allora, che cosa lo aveva spinto a riprenderlo e a finirlo tanti anni dopo? Probabilmente, una maggiore fiducia nei propri mezzi e una più rilassata disponibilità di fronte a eventuali manchevolezze, ma anche l’essere consapevole, in quanto creatore, di un proprio universo che se all’occhio di un critico poteva sembrare sovrabbondante, mal costruito, non perfettamente reso, agli occhi dell’autore-lettore aveva anche altre valenze, faceva suonare specifiche affinità elettive. Per Il salvataggio, così come per Il caso, si può, legittimamente, criticare il tono da feuilleton, l’eccesso di idealismo e di romanticismo, la storia d’amore e di onore troppo disperata, eppure chi li legge viene subito preso nelle spire del racconto e non lo lascia più, è condotto in un mondo parallelo dove il cinismo e lo scetticismo della vita reale non hanno cittadinanza. Ammesso e non concesso che sia un Conrad “minore”, resta maggiore di molti degli scrittori nostri contemporanei.
A più di ottant’anni dalla morte, l’impatto del suo universo artistico ed esistenziale è del resto ancora così forte da rimanere in quanto referente di situazioni, modi di dire, stati d’animo. Frasi come «cuore di tenebra», esclamazioni come «l’orrore, l’orrore…» sono entrate nel linguaggio comune e spesso vengono dette senza una conoscenza del loro contesto originale. La sua eredità ha influenzato la narrativa latino-americana, il romanzo di spionaggio, l’idea che si può avere della psicologia di un terrorista o di un anarchico. Graham Greene confessò di aver smesso a un certo punto di leggerlo perché paralizzato dal confronto, consapevole che in caso contrario sarebbe finito in un vicolo cieco.
Il caso, che in Italia uscì per la prima volta negli anni Settanta nell’edizione completa delle Opere per Mursia (Un colpo di fortuna era il titolo), è sotto questo profilo esemplare. Racconta il riscatto, grazie a un marinaio, di una giovane dal proprio passato, «una storia di mare che si indirizza alle donne», secondo la fascetta pubblicitaria che l’accompagnava, ma in realtà è molto di più e molte più cose, come del resto la sua lunga stesura rivela.
C’è una sorta di narratore onnisciente, ci sono gli albori del femminismo, suffragette esaltate a petto di uomini mediocri, e i disastri del capitalismo speculativo, c’è l’incomprensione fra i sessi e la cecità orgogliosa dei comportamenti, e ogni volta che l’autore sembra voler imboccare una strada, raccontare una storia, ecco che le altre strade e le altre storie lo tirano per la manica e chiedono di essere ascoltate. È, naturalmente, un libro sul destino, e sull’impossibilità di sfuggirgli, e però è anche il racconto ostinato di chi al destino non si rassegna, e si gioca tutto pur di afferrare, sia pure per un attimo, «quel filo di nebbia» femminile, «quell’ombra bianca fuori posto in un mondo sporco e brutto» che nel riconciliare lei con il mondo darebbe anche a lui il posto che nel mondo gli spetta. Un romanzo disperato e felice.
* da Il Giornale