Dal libro al film e di nuovo al libro. Inarrestabile l’ascesa di Paolo Cognetti al monte sacro della letteratura contemporanea. Neanche lui probabilmente si sarebbe aspettato tale risultato, forse nemmeno Einaudi – che di scommesse editoriali ha fatto scuola- né avrebbe mai sospettato una tale risonanza mediatica. Un clamore trasversale tutt’altro che grossolano. Un successo elegante, in punta di piedi, dignitoso.
Il successo del libro Le otto montagne, dopo aver venduto milioni di copie ed essere stato tradotto in decine e decine di lingue diverse, non conosce sosta e anzi, con l’uscita dell’omonimo film, probabilmente raggiungerà ulteriori clamorose vette.
Avevo poche e chiare regole da seguire: uno, prendere un ritmo e tenerlo senza fermarsi; due, non parlare; tre, davanti a un bivio, scegliere sempre la strada che sale.
[Cognetti P., Le otto montagne, Einaudi, 2016, p.32]
Il successo di Cognetti, nell’alveo della letteratura italiana contemporanea, sembra seguire le poche regole che egli tenta di prefiggersi quotidianamente nei suoi sentieri di montagna. Poche parole, testa bassa, gesti semplici ma costanti.
Ma chi è Paolo Cognetti? Qual è il segreto di tale successo?
Giovane scrittore che ama la montagna – la natura, quella che intendono le persone di città, non sa cosa sia, troppo astratta, idealizzata – quella montagna che si apre dopo i 1.500 metri d’altezza, quando scompaiono di colpo gli abeti e i larici e lo sguardo si apre sulle praterie alpine, sui torrenti, le torbiere, le bestie al pascolo. Un giovane ragazzo di città che ha messo per iscritto le sue riflessioni fatte durante le camminate, sulle Alpi, sull’Himalaya, per le strade di Torino, di New York. Poco altro si deve aggiungere, se si vuole rimanere onesti, su questo scrittore che fa di tutto per rimanere nascosto nella sue montagne valdostane. Le sue otto montagne non sono tanto di più. È il ghiacciaio che regala all’uomo acqua di secoli precedenti, è il fischio dello stambecco, il mal di montagna che contorce le budella, è il freddo che fa odiare l’inverno in quota. Perché dunque tanto successo?
In Le otto montagne non si trova la montagna da passeggiata domenicale, da bucolico momento in famiglia. Nel libro di Cognetti ci si avvicina alla montagna, ma a quella montagna che ognuno di noi porta dentro di sé da millenni.
Libretto facile da recensire con poche battute, perfetto da far leggere ai giovani studenti delle superiori, i quali con poco sforzo possono riassumere trama e personaggi principali; più arduo invece per chi vuole leggere tra le righe, dietro ad una prosa semplice e cristallina, essenziale, scarna, precisa, specchio del mondo che descrive, riflesso di quello che l’autore vuole ricercare.
Questa è la via per provare ad analizzare quello che lo scrittore, dal viso buono e dagli occhi malinconici, ci vuole offrire. La chiave del successo di questo libro è insita nella ricerca stessa dell’uomo Cognetti e dello scrittore Cognetti, che si fanno medesima persona.
L’autore/protagonista non fa altro che mettersi a nudo di fronte alla vita, con una scrittura che non perde tempo – perché non può perderlo – e scrive di montagna non per offrire un’alternativa, non per elargire risposte o consigli da manuale di sopravvivenza, al male di vivere della città e della vita di tutti i giorni. Paolo Cognetti scrive di montagna e viene apprezzato per questo, più da chi sta in basso che da chi sta in alto – che non ha tempo per queste riflessioni – perché apre alla fragilità dell’uomo, perché ne mostra le sue debolezze e insicurezze, perché indica la montagna non come meta ma come mezzo, mezzo non per guarire da qualcosa, ma per soffrire di qualcosa assieme ad essa.
Dietro la prosa di Cognetti, nel suo mondo di torrenti, crepacci e rododendri, si nasconde una pregnante malinconia, uno struggimento costante, a tratti celato, una nostalgia per una felicità che non si trova né in città, né in montagna, una felicità a cui da sempre l’uomo aspira. La montagna come mezzo. La montagna come silenziosa appendice nella ricerca.
Sapevo che in montagna si cammina da soli
anche quando si cammina con qualcuno.
[Cognetti P., Senza mai arrivare in cima, Einaudi, 2018, p.7]
Le otto montagne e la sua scrittura essenziale sono fatte di silenzio, di pause, di pensieri. Sono tavole di prattiana memoria, dove trova spazio solo ciò che serve. È prosa che si fa lirica, perché va dritta al punto, come un Haiku, come un verso che apre all’abisso parlando di una maglia rotta in una rete. Il grande pubblico riconosce in questa scrittura semplicissima un qualcosa che non sa esprimere. Il grande pubblico non sa perché idolatra Le otto montagne, ma percepisce che dietro le righe c’è qualcosa che può servire. Il lettore di Cognetti non va per forza in montagna, non arrampica, non bivacca all’addiaccio, ma intuisce che la montagna così vissuta, con poche idee e nessuna aspettativa, può confortare e dare un po’ di serenità.
La pellicola appena uscita, tratta fedelmente dal libro, funziona per questo. Il film non delude perché i registi, aiutati da attori che il libro lo hanno letto per davvero e che per davvero hanno capito Cognetti, mettono magistralmente in scena ciò che nel libro fa da cornice essenziale. I dialoghi sono silenzi, le domande sono lasciate in sospeso, le emozioni sono troncate a metà. Tutto è essenziale e tutto è curato nei minimi dettagli. I due personaggi si calano con grande afflato nella loro parte, interpretano il libro pagina per pagina, non inventano, non esasperano nessun sentimento. L’amicizia, che è la trama fondante di Le otto montagne, un’amicizia che «non ha bisogno di cure», è modellata sulla durezza della vita ad alta quota. Il vento che sferza il viso di Bruno e Pietro è il vento che sferza da sempre i secoli. Niente di più, niente di meno. Tutto nel film scivola via alla perfezione. Tutto è intenso. Pochi abbracci ma tante corse in salita, bagni nei laghi gelati, bevute di grappa davanti al fuoco, non-detti che scavano nella carne. Il rischio di creare la macchietta del ragazzo hipster di montagna con la camicia a quadri, la barba e il viso serioso viene spazzato via dai gesti misurati e genuini dei protagonisti. Ragazzi selvatici che cercano, pensano e bevono. E attendono che faccia capolino nella loro vita il pressante fardello del fallimento. Ma non c’è banale opposizione manichea tra pianura e montagna, bene contro male, ricerca di eroismo o, ancor peggio, l’antierosimo tanto di moda oggi.
Di solito tacevo. Avevo già imparato un fatto a cui mio padre non si era mai rassegnato, e cioè che è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quel che si prova lassù.
[Cognetti P., Le otto montagne, Einaudi, 2016, p.61]
Vi è solo vita che scorre, come scorre il torrente, come si muove il ghiacciaio, come si sposta la montagna.
E la bellezza della montagna nel film non manca, anzi. La montagna quella vera, quella della Valle d’Aosta, è ripresa con una fotografia documentaristica che impressiona per la ricerca dei dettagli e delle giuste inquadrature. Una montagna che non fa rimpiangere nemmeno la vastità magnifica delle montagne più alte del mondo, che Cognetti vede e descrive, senza però mai volerci arrivare in cima – e il mal d montagna come naturale metafora di un recuperato senso del limite – quell’Himalaya misterioso e severo a due passi dal cielo. Il film inserisce con maestria anche quell’Oriente lontano, che Cognetti non occidentalizza ma rispetta, fotografa, fa suo, interiorizza e trasforma in nutrimento per il suo mondo, la sua scrittura, per il suo famoso libro, che richiama i dipinti himalayani di Nikolaj Roerich, che con la sua arte essenziale, le otto montagne forse le ha avvicinate per davvero.
In Le otto montagne ciò che impressiona è proprio il fascino della montagna, nella sua durezza e nella sua essenzialità. Nella montagna più alta del mondo, come in quella più accessibile, dietro casa.
Camminare riduceva la vita all’essenziale: cibo, sonno, incontri, pensieri.
[Cognetti P., Senza mai arrivare in cima, Einaudi, 2018, p.94]
Per quale motivo, quando si cammina su un sentiero di montagna, i polpacci si tirano, il fiato si fa corto, talvolta capita di sfiorare con la mano il tronco di un albero? Nessuno vuole conoscere la risposta, ma si fa e lo si farà fino all’ultimo inverno. Inutile dunque chiedersi il motivo del successo dell’opera di Paolo Cognetti. È sufficiente leggerlo e non porsi troppe domande, non perdere tempo in chiacchiere. Leggere il libro e non perdersi il film, senza filosofeggiare troppo.
eccelsa recensione.Libro e film da leggere e vedere.senza tante chiacchiere.
Pietro , il protagonista, descrive in maniera poco lusinghiera la città di Milano che è del resto la città natale di Cognetti
Nel film Milano diventa Torino
Peccato perché Torino ha una naturale vicinanza alle terre alte, non solo perché le vedi dal balcone, ma anche per storia e cultura
È una superficialità della sceneggiatura o altro
Da torinese ed amante della montagna, tanto da averci vissuto parecchi anni, mi dispiace