Non c’è, ovviamente, spazio a sufficienza in questa mia riflessione per poter affrontare nella sua completezza un argomento così importante e complesso, a un tempo, che abbraccia quello che è definito “sincretismo religioso” o, più correttamente – direi – “dialogo interreligioso”. Sono, del resto, due concetti “limitrofi” ma differenti.
Il “sincretismo religioso” – “sincretismo”, termine d’origine greca, che significa “mischiare”, “fondere insieme” – è sempre stato presente nei momenti di transizione delle culture, con il compito, alla presenza dell’influsso di più tendenze di pensiero, di tentare, per l’appunto, di “fonderle insieme”, evitando così un vero discernimento o distinzione che dir si voglia. Il termine, che appare per la prima volta in un’opera morale di Plutarco, il De fraterno amore – quindi, agli albori del Cristianesimo, essendo nato, il grande scrittore e filosofo greco, attorno al 46 d. C. – ha caratterizzato profondamente anche i primi tre secoli dell’era cristiana, con un intreccio molto variegato di dottrine religiose d’origine orientale, di superstizioni e riti pagani nonché di filosofia greca innestati sul tronco della nuova spiritualità cristiana. Gli esempi, tuttavia, di “sincretismo religioso” marcato sono tutti concentrati in epoca moderna, a partire, soprattutto, da quella coloniale, allorquando ci furono i primi contatti fra il Cristianesimo e le religioni africane tradizionali. Prima tra tutte quella conosciuta con il termine “Vodoun”, culto che oggigiorno conta più di cinquanta milioni di seguaci nella sola Africa occidentale, con milioni di adepti anche nel Nuovo Mondo – Cuba, Haiti e Brasile – dove tali pratiche e credenze sono giunte per il tramite della tratta degli schiavi neri. C’è da dire, tuttavia, come i rapporti fra il culto o i culti “Vodoun” e il Cristianesimo, nonostante i profondi elementi sincretici dovuti inevitabilmente alle contingenze storiche, non siano mai stati idilliaci. Oggigiorno, con alle spalle, oramai da molto tempo e per fortuna, tanto lo schiavismo quanto il colonialismo – alla cui estinzione hanno fattivamente contribuito moltissimi cristiani, in primis, i missionari religiosi – le relazioni sono di certo migliorate, pur persistendo, per così dire, una forte “concorrenza”.
Risulta ovvio come la conversione al Cristianesimo richieda a colui che intende ricevere i sacramenti l’abiura della precedente fede nel “Vodoun” e nelle corrispondenti “tecniche” di divinizzazione. Solo in Brasile – una realtà che conosco abbastanza bene per via della mia (ex) professione di professore universitario di Lingue e Letterature portoghese e brasiliana – è presente un forte movimento afro-americano cattolico che pratica entrambe le “fedi”. In particolare nello Stato di Bahia – la sua capitale, Salvador, è conosciuta, per via delle sue 365 chiese, come la “Roma nera” – con la forte presenza del “Candomblé”, una confessione religiosa nella quale ogni “Orixá” (divinità d’origine totemica e familiare, associate ciascuna a un elemento della natura, e il cui termine discende dalla tradizione africana “yoruba”) ha il suo corrispondente Santo cattolico. Cosicché, molti nativi si considerano sia cattolici sia fedeli alle tradizioni africane, partecipando tanto alle Messe quanto alle cerimonie afro-americane, che si tengono nei cosiddetti “terreiros” in onore proprio degli “Orixá”. È questa un’eccezione che, nonostante sia vista da più parti come eretica, io personalmente – e così come me tantissimi sacerdoti che “la consentono” insieme anche alle alte sfere ecclesiastiche locali che “la tollerano” – ritengo necessaria per opporsi alla “concorrenza”, non solo dei culti d’origine africana, ma anche di tantissime Chiese riformate quando non proprio di sette, molte delle quali praticano riti satanici.
Quanto al concetto di “dialogo interreligioso”, esso si distingue da quello di “sincretismo religioso”, poiché ha come base, non la sintesi di elementi diversi in nuove forme di credenza, ma l’interazione, la tolleranza, il rispetto reciproco, la comprensione, in una parola, per l’appunto, il “dialogo” tra religioni differenti. Il problema su cui la discussione si fonda è come occorra intendere tale “dialogo” e come e in quali termini esso debba svolgersi. Per quanto riguarda la mia posizione – che è poi la posizione largamente condivisa dalla maggioranza dei fedeli cristiani, e cattolici in particolare – è, come dire?, prudenziale. Nel senso che pur nella necessaria coabitazione fra le religioni – alla luce di una fase della storia del mondo odierno in cui sembra che stiamo precipitando in un baratro profondissimo se è vero, com’è vero, che sempre più alto si leva il grido empio: «Dio è morto» – il Cristianesimo deve mantenere la sua identità.
Del resto, nella dichiarazione Nostra Aetate (28.10.1965) – facente parte, lo ricordo, dei documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II, e che riguarda il tema del senso religioso e delle relazioni della Chiesa Cattolica con le altre Chiese cristiane e le confessioni religiose non-cristiane – è detto:
«La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.
Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è “via, verità e vita” (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose».