Città divise, da muri, da confessioni religiose diverse, amministrazioni separate, da diffidenze e ostilità che si tramandano da generazioni e che difficilmente cadranno, perché la separazione fisica delle parti e delle comunità in conflitto (misura di emergenza per prevenire spargimenti di sangue) diventa divisione permanente. E aggiungiamo, elemento non trascurabile, che tali divisioni tra popoli servono ad alimentare inconfessabili ma evidenti interessi geopolitici e neocoloniali. Ma anche città nelle città, condomini difesi da un muro di cinta, comunità esclusive quanto asserragliate e aperte solo a chi fa o farà parte del club. Daniele Dell’Orco, editore e autore di questo interessantissimo saggio, non si limita a raccontare le città che ha visitato, non si limita a tracciare un ritratto doloroso delle condizioni in cui vivono nell’indifferenza generale centinaia di migliaia di persone – cosa che fa con accuratezza e forza evocativa – ma allarga lo sguardo al futuro. Smantella la retorica dell’inclusione, dell’accoglienza, dell’integrazione, dell’abbattimento dei confini. La storia dice altro. L’attualità dice altro. C’è un fenomeno nuovo e forse persino più preoccupante – in termini culturali – rispetto a quello delle città divise, specie perché volontario e basato sull’istituzionalizzazione del classismo: isole urbane cintate e videosorvegliate, zone extra-territoriali totalmente indipendenti dall’esterno, dotate di polizia privata e normate da regolamenti interni. Privatopie che si trovano sempre più spesso in Sud Africa, Colombia, Argentina, Brasile e persino in Cina e nella democraticissima (?) New York, dove a blindarsi è la minoranza dei più ricchi. Qualcosa di simile accade in megalopoli come Dubai e Doha, salita alla ribalta internazionale: la città protetta dall’esclusione sociale e urbana della classe operaia, confinata in spazi invivibili ma invisibili.
L’utopia è quella di progettare città apparentemente perfette, in cui tutto ciò che rompe questa armonia artificiale va nascosto sotto al tappeto, per usare un eufemismo. Prove tecniche di apartheid. Senza andare così lontano, basterebbe guardare in casa nostra, nei grattacieli riservati a chi si può permettere un certo tenore di vita.
Se la costruzione di muri, in anni lontani, assicurava la sicurezza collettiva e quindi era inseparabile dallo sviluppo urbano che si andava fortificando, la città internamente, socialmente ed etnicamente divisa è al contrario un fenomeno del Ventesimo secolo, anche se già nella culla della civiltà, l’antico Egitto, i lavoratori e gli artigiani erano obbligati a vivere in quartieri angusti, ben distinti dai quartieri residenziali.
L’idea di questo libro, a Dell’Orco, promessa mantenuta del giornalismo italiano, è venuta riflettendo sul trionfalismo con cui ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni, si celebra la caduta del Muro di Berlino. Eppure esistono ancora in giro per il mondo diverse città murate, divise da barriere di calcestruzzo, tornelli o checkpoint, di cui non si parla più. Non fanno più notizia.
Città come Belfast, Sarajevo, Mostar, Mitrovica, Skopje, Nicosia, Gerusalemme, Betlemme ed Hebron, che Dell’Orco ha visitato e deciso di raccontarne le storie, vitali per la comprensione del mondo contemporaneo, delle sue contraddizioni, dei suoi paradossi, delle sue ingiustizie e delle sue direzioni future.
Certo, la capacità di adattamento dell’essere umano ha permesso agli abitanti di queste città di “normalizzare” un trauma come quello della segregazione, dell’esposizione ai pericoli, al contesto di guerra civile che si respira in gran parte delle città divise.
*Città divise, di Daniele Dell’Orco, pp. 270, euro 19, edizioni Idrovolante
L’uomo ha sempre vissuto ‘blindato’, dietro alte mura, o bastioni, o quartiere più o meno esclusivi… Poche eccezioni… Venendo meno la cultura del lavoro dell’epoca positivista, con la diffusione di un edonismo straccione e poltrone, oltrechè globalizzato e gender fluid, dedito a droghe ed alcol, nel giustificazionismo politico-sociologico dei tempi politically correct, naturalmente è peggio… Almeno ci fosse la forca di de Maistre!