Magari un giorno scriverò un libro… Con queste parole si apre il libro di Franco Nerozzi. Sei parole, poche, come un incipit deve essere, pochissime, come chi è abituato a parlare poco. Un incipit semplice e limpido, un inciso profetico, che come tutte le profezie nate in tempi di dubbio, si è, per nostra fortuna, realizzata. Ripeto il pronome “nostra” non a caso, ma per chiarire subito la direzione verso cui il libro vuole dirigersi con tutta la sua potenza, potenza nata dalla necessità e dallo scopo, che ruota attorno appunto a quel pronome. Al di là dei giudizi estetici o morali infatti – se esistessero ancor giudizi morali! – che ognuno di noi potrà apportare all’opera in questione, quello che è da capire fin da subito è che il libro è stato scritto unicamente per noi e per la nostra salute mentale, che però è anche e soprattutto – ce lo insegna l’autore in ogni riga, – salute del corpo e quindi dell’anima. Un libro che, con durezza e senza fronzoli, come devono essere tutte le rivoluzioni, di tutti i tipi, prepara contemporaneamente anima e corpo. A cosa prepari lo capisce solo chi si addentra con rispetto nel profondo della giungla con i saggi guerrieri Karen, tanto, forse, troppo umani, spiazzanti nella loro primitività, per non farci cadere nello sconforto (umanissimo), dato dal confronto impari tra chi la vita la rischia tutti i giorni sulla propria pelle e chi la vita invece la lascia semplicemente scorrere..
Mente e corpo vengono allenati con tenacia in questa storia, fusi insieme e fatti diventare inchiostro indelebile, di quello che ti entra nella pelle e si fa pelle, nuova muta, per permettere di sopravvivere ai colpi implacabili della Modernità. Corpo e mente non sono mai stati così inscindibili come negli uomini che vengono presentati in questo romanzo – grande storia costellata da grandissime storie – ed è per questo, anche per questo, che il libro è un dono, inaspettato ma gratuito (o viceversa) che l’autore fa a tutti noi, inconsapevoli lettori, pronti a denudarci di fronte alla vera vita fattasi inchiostro, tatuaggio ancestrale; come ancestrale è la tradizione incarnatasi nei personaggi del libro, che rimangono nascosti tra le foglie per non soccombere al declino di un mondo, uomini semplici ed onesti che masticano noci di betel e vestono solo con il thekou legato in vita, che credono ciecamente nel potere delle leggende, il cui compito è quello, da sempre, di tramandare valori millenari. Lo si comprende fin da subito che tutto è stato scritto, con garbo ed umiltà assoluta, per noi, fin dalle primissime riflessioni, da quel vorticoso incedere di pensieri che emergono da pagine fitte di storia e di storie, lontanissime geograficamente quanto affini per chi, non per forza ha visto e vissuto quei mondi, non obbligatoriamente ha conosciuto di persona l’autore, ma per chi vive la vita con occhi diversi, con occhi liberi e curiosi di cercare il sentiero giusto.
Nascosti tra le foglie è il titolo del libro che Franco Nerozzi, per grazia divina, o per meglio dire, usando un lessico a lui caro, per grazia di forze trascendenti che il mondo ancora ospita, ci ha regalato. Ringraziamo quindi leggendolo questo condensato di vita e di coraggio, ripaghiamo vivendo, vivendo il libro, trasportando i valori che esso trasmette nel quotidiano – il titolo originale è per l’appunto Hagakure, in quella lingua deliziosa e granitica allo stesso tempo com’è la lingua degli antichi samurai – gratifichiamo inseguendo i sogni ad occhi aperti di Renè, i sogni, ancora più grandi, di Saw Lee, di cacce al cinghiale, di metafisica, di patria ideale, non geografica, non patriottica ma spirituale e valoriale, di evoliana memoria.
Un libro che non vuole insegnare nulla e che vuole insegnare tutto.
L’autore entra nell’alveo della letteratura in punta di piedi, con una scrittura piacevole ed intensa, che non lascia spazio al superfluo, che trasmette grandi idee, idee profonde e preziose come le fitte foreste di tek, ma anche grandi sofferenze; prosa che tormenta ma allo stesso tempo gratifica il lettore, aprendogli mondi sconosciuti, presentandogli uomini d’altri tempi, ricordandogli valori ormai scomparsi nel nostro mondo perfetto; una scrittura, quella di Nerozzi, che non lascia troppo spazio all’immaginazione, perché l’immaginazione, tanto cara alla letteratura d’occidente, in alcuni casi, questi!, deve farsi da parte e lasciare spazio alla cruda vicenda di popoli, che vengono spazzati via da governi affaristi e corrotti, figli di un dio denaro che non conosce misericordia. Il libro è scorrevole dunque, piacevole nella lettura, perfetta nel suo incedere rapido, ma d’un tratto il ritmo cambia ed inizia a turbare quando, senza tanti fronzoli, la penna affronta, spesso attraverso lunghi dialoghi, magistralmente costruiti dall’autore, vicende e tematiche enormi, come enormi sono le ingiustizie che, nel mondo che non conta, purtroppo ancora oggi vengono perpetrate. L’immaginazione dunque scompare quando arrivano le truppe governative birmane, tanti contro pochi, con armi sofisticate e moderne e spazzano via interi villaggi, trucidando donne e bambini innocenti, lasciando terra bruciata di un mondo sincero e autentico che non può sottostare alle nuove leggi di mercato. La storia del popolo Karen non è leggenda, ma è leggenda che si è fatta storia e dalla storia è minacciata di scomparire.
Franco Nerozzi, l’autore e protagonista, non cade nel facile vittimismo, non punta con la sua penna alla lacrima facile, ma pretende per lo meno che lo si ascolti quando racconta, perché lui racconta, non spiega, non ha il piglio fastidioso di chi vuole insegnare, racconta solo dov’è il bene e dov’è il male, consapevole che nel buio della giungla rimarrà comunque da solo a calpestare le felci umide e a guardare i bei pappagallini gialli, figlio adottivo di una cultura la cui prima virtù rimane ancora oggi, nella post-modernità, quella di un’aristocratica umiltà, nemica dell’arroganza e dell’interesse.
Nascosti tra le foglie è un haiku di 350 pagine, per quanto è portato all’essenziale il linguaggio, è un colpo di lancia, una raffica di Kalašnikov, un sorso di tè nero amaro, bevuto all’ombra di grandi alberi di tek.
La scrittura di Nerozzi ci fa passare velocemente dalla sua città natale, ricca, occidentalissima, omologata ed omologante, alla giungla birmana, profonda e misteriosa, facendoci innamorare di quei villaggi coperti da liane e orchidee bianche aggrappate ad alberi immensi e silenziosi. Ma poi ancora e poi ancora, l’esercito birmano arriva in quei villaggi di legno e il mondo idilliaco, la bellezza della mitologia tramandata ed incarnata dai gesti brevi e silenziosi di quei piccoli uomini, vengono spazzati via dalle raffiche di fucile di un esercito ostile, guidato e finanziato da interessi stranieri. Il male arriva presto. I morti non si contano, i bambini tolti alle madri aumentano, un mondo, quel mondo, rischia costantemente di venire spezzato via dall’imperialismo mondialista. Non c’è molto tempo per lasciarsi cullare dalla bellezza di una cultura così diversa e così autentica. I nemici sparano e tagliano teste. La patria, la terra, la comunità non valgono nulla per chi crede solo nel denaro.
Nerozzi ci regala questa sua avventura di vita, nata per una sfida giovanile con il proprio io “borghese”, con delicatezza, ma non può in ogni caso evitare che ci si sporchi le mani e il cuore. Non basta bere il tiepido ed amaro infuso di corteccia di china, l’antico rimedio dei guerriglieri Karen contro la malaria. In questo caso serve l’esperienza, il battesimo del fuoco, il sangue, la paura. La sua prosa che ci accompagna nella giungla ferisce, sporca, inquieta, fa pensare alla propria vita, ci fa chiedere il perché di certe scelte, scelte che il lettore più attento, come quello più superficiale, non può che riconoscere nell’autore stesso, che si è scelto il proprio “deserto”, come si legge nel libro, andando via da tutto ciò che amava per andare ad influire sul destino di tante, tantissime vite, come il testo racconta. Il segreto della vita? Non chiedersi mai quale sia il suo senso. Eppure un senso deve averlo trovato quella notte sotto il cielo stellato dell’Afghanistan, immerso in quell’aria fine e misteriosa, o quel giorno a colloquio con il comandante Massoud, il guerriero sposato con la morte, un senso deve averlo pur trovato sotto le bombe alla periferia di Osijek, in ex Jugoslavia, in fuga dall’inferno fattosi battaglia. O tra gli uomini duri come la pietra di Belfast, a rischiare la morte ogni giorno, ad ogni funerale, ad ogni messa domenicale.
La trama del libro è questa. È il resoconto inesorabile di esperienze definitive, di viaggi, reportage, battaglie in giro per il mondo, per quel mondo che non ha voce perché legato a valori immateriali e non comprabili. La trama è il susseguirsi di questi resoconti. La trama è la continua risposta alla domanda sull’esistenza di un senso. L’autore poteva starsene tranquillo a bere Gin Tonic nella sua bella città sul fiume, eppure il profumo della rugiada notturna dell’Africa, l’Africa dal volto acerbo di morte, perché eternamente martoriata dal giogo occidentale, non fa che ripetergli quella risposta. Il senso del dovere, la salvaguardia di un’Identità, incarnata in popoli lontani, quei Popoli che ancora combattono, sono motivi sufficienti per chi non voleva rimanere a vivere una vita “normale”, lontana dal coraggio e dalla paura.
Queste righe potenti, nobili nel loro anacronismo, a tratti anche angoscianti, non regalano al lettore la strada per la verità, non permettono di individuare il senso della vita, non indicano nella guerra, come si potrebbe pensare ad una rapida lettura, la via per ritrovare antichi e sommersi valori veri. La guerra per l’autore, la guerra quella primitiva, fatta a piedi nudi in sette contro settanta, la guerra combattuta per un ideale sacro, che è quello per la libertà, è stata senz’altro la sua musa ispiratrice, il leitmotiv della sua vita, ma non ne ha mai voluto fare un totem da seguire. Ognuno segue la propria strada. Quella di Franco Nerozzi è stata la guerra per salvare una tradizione in pericolo di estinzione. Non c’è moralismo tra queste pagine, non c’è ostile giudizio e noioso filosofeggiare, né tanto meno si trova eroismo militarista da film americani sul Vietnam.
«Le contraddizioni minano anche il più cristallino dei pensieri!» Si legge nel libro. Luci ed ombre, come è sempre stato. Certezza e dubbio, come sempre sarà. Tentativi, ma tentativi autentici, di vivere per davvero…
C’è una particolarità in quest’opera, una piccola particolarità che lo rende unico nel suo genere e che si riallaccia alla potenza della guerra. Le storie che vengono raccontate tra queste pagine, dalle più crude alle più divertenti, possiedono un sapore autentico che solo chi ha visto la guerra da vicino può fare. La lucidità con cui vengono espressi certi concetti, o narrati alcuni episodi, la delicatezza e l’assoluta mancanza di sovrastrutture mentali, di interesse personale, di strumentalizzazione ideologica, lasciano trasparire una purezza nel narrato senza precedenti per un libro di questo tipo; vi è un afflato spirituale, una delicatezza di giudizio che solo chi ha vissuto veramente può trasmettere a chi, certe cose, non le ha mai viste e mai le vedrà.
Un libro sincero, innocente, senza cadere nel paradosso, innocente come può essere un bambino. Leggere la penna di Franco Nerozzi, che per fortuna ha scritto, è come sentir parlare un bambino, che non può che dire la verità perché ancora non sa cosa sia la menzogna. La guerra, la guerra quella per la libertà e la vita, forse fa ritornare bambini e, giusto o sbagliato che sia, permette di guardare alla realtà con occhi ancora puri ed innocenti.