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In occasione del centenario della Marcia su Roma, che ricorreva il 28 ottobre scorso, nelle librerie sono arrivate decine di libri sul fascismo, su Mussolini, sulla Marcia su Roma. Si sa, il Fascismo è un argomento che dal dopoguerra “fa cassetta”. La gran parte dei libri usciti in questi mesi, però, ha un’impostazione divulgativa, sono basici, generici, senza analisi, alcuni – non a caso – stroncati da illustri storici e politologi. Libri di storia scritti da romanzieri e libri di politica scritti da giornalisti spesso parziali. A volte anche con svarioni. Insomma, se qualcuno vuole farsi un’idea seria sul Fascismo, deve leggere libri di qualità, ancora reperibili. Come quelli di De Felice, Gentile, Galli della Loggia, Perfetti, Parlato, Accame, Nolte, Volpe, Linz, Sternhell, Mosse, Gregor, Guerri, Veneziani, Kunnas, Romualdi, Tarchi, Mangoni, Buchignani, ecc. Ovviamente alcuni libri di questi autori richiedono “attenta lettura critica”, ma sono scientifici, di qualità.
Qualcosa di nuovo e di interessante è stato pubblicato anche in questi mesi. Nuovo eppure antico se si pensa che talvolta sono proprio le fonti a spiegare meglio certe realtà, certe dinamiche, certe decisioni prese in momenti critici. Spesso sono poco conosciute proprio le fonti. Così Altaforte ha pubblicato un’antologia di scritti e discorsi di Benito Mussolini della Rivoluzione fascista. Tutti pronunciati e scritti nel 1922 mostrano, a cent’anni della marcia su Roma, come le dinamiche storiche furono molto diverse dalla vulgata attuale. Non a caso Lenin disse che il Duce era l’unico in Italia in grado di fare una rivoluzione. Così fu.
E l’immagine che viene data di una mobilitazione da operetta, di gruppi di squadristi sbandati e male armati difronte un esercito forte e deciso, sono smentite dai documenti (De Felice) e dai fatti (la presa del potere). La mobilitazione fu decisa e si palesò in tutta Italia fino ai sobborghi di Roma. Nelle maggiori città italiane gli squadristi avevano occupato i centri nevralgici dello Stato, comprese, in certi casi, le caserme. Mussolini fu abile a rimanere fino all’ultimo a Milano mantenendo una trattativa a distanza. Cosicché la vera battaglia si tenne sulla linea telefonica fra Milano, dove era Mussolini, il Quirinale, residenza del re, e il Viminale, sede della presidenza del Consiglio. L’impresa fu possibile per la pressione delle squadre scese in campo in tutta Italia e per l’azione diplomatica di Mussolini.
Al re fu chiesto dal presidente del Consiglio Facta di firmare lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele chiese allo stato maggiore notizie sulle condizioni dell’Esercito ed ebbe come risposta che “l’esercito era troppo simpatizzante col Fascismo per poterlo arrischiare in un conflitto” e che la guarnigione a Roma contava “cinque-seimila uomini in tutto”. Intorno alla capitale c’erano oltre 30mila squadristi. Il generale Armando Diaz disse al monarca, testualmente: “L’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”.
Non solo l’esercito non era affidabile per l’instaurazione dello stato d’assedio ma il re capiva bene che se avesse firmato avrebbe dato luogo a una guerra civile e non avrebbe avuto alleati nel futuro. Chi lo avrebbe appoggiato? I liberali, divisi e allo sbando? I socialisti, che odiavano la casa regnante? I popolari di don Sturzo, schierati apertamente contro la Corona e a favore della Chiesa per la questione romana? Il re non aveva molte possibilità e scelse il Fascismo convinto di poterlo normalizzare semplicemente assegnando qualche ministero.
Gli articoli e i discorsi sono importanti perché spiegano gli interrogativi del tempo, le aspirazioni dei giovani tornati dal fronte della prima guerra mondiale e la volontà di svecchiare l’Italietta liberale. Discorsi e scritti che esprimono la visione del mondo, il progetto politico dei fascisti, la sconfitta del Partito socialista che voleva prendere il potere con la violenza, come era scritto nel suo stesso statuto. Un libro di parte ma che, con il valore di documento storico, getta una luce su quel momento critico per le scelte di campo.
![Il libro sulla marcia su Roma di Ataforte](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2022/12/078ffbf1d96f6425dd115942e6f864ca.jpeg)
Benito Mussolini, 1922. La mia marcia (Altaforte ed., pagg. 185; euro 15,00; prefazione di Fabrizio Vincenti e postfazione di Valerio Benedetti; ordini: altafortedizioni.it)
Quel bel quadro di Balla, mica un antifascista, ci dice molto, a saperlo interpretare. Mussolini con le ghette ed il colletto duro, i quattro quadrumviri in camicia nera, De Bono e De Vecchi con tante medaglie sballonzolanti. De Vecchi un Capitan Fracassa urlante…Tutti e quattro massoni (Gran Loggia degli ALAM). Michele Bianchi ed Italo Balbo morirono prima del 25 luglio 1943, De Bono e De Vecchi votarono l’OdG Grandi, furono condannati a morte e De Bono, già Comandante della Guerra d’Abissinia, prima di Badoglio, pure fucilato a Verona… La Marcia su Roma non fu una rivoluzione, ma il ricambio parziale della classe dirigente… Certo che Mussolini poi la presentò in modo a lui politicamente utile…
.. ma poi rovinò tutto con la Conciliazione del 1929, con la quale riconsegnò buona parte del potere alla Chiesa, quello che a fatica l’Italia liberale le aveva tolto nel 1870. Una Chiesa oscurantista, manipolatrice di coscienze di ignoranti, soprattutto…Senza la Conciliazione, forse la Chiesa di Pacelli non avrebbe vinto le elezioni del 1948. Forse…
Senza la Marcia su Roma forse non saremmo mai entrati in una Guerra Mondiale per noi persa in partenza, anche se la Germania avesse vinto…
Il 31 ottobre 1922, all’atto dell’insediamento, il I governo Mussolini era composto da tre ministri fascisti, due popolari, due democratico-sociali, due liberali, due militari, un nazionalista e un indipendente… Giolitti votò la fiducia e disse: ‘Questa Camera ha il governo che si merita. Essa non ha saputo darsi, in varie crisi, un governo, e il governo se lo è dato il Paese da sé’.
Dichiarò Benedetto Croce in un’intervista, il 27 ottobre 1923: “Se i liberali non hanno avuto la forza e la virtù di salvare l’ Italia dall’ anarchia in cui si dibatteva, debbono dolersi di se medesimi, recitare il mea culpa, e intanto accettare e riconoscere il bene da qualunque parte sia sorto, e prepararsi per l’ avvenire”