«Lisbona, città grande, metropoli del Regno di Portugallo, bellissima e ricca, e a giudizio universale di tutti è la più popolata città della christianità, se pure si eccettua Parigi, e con giusta ragione si puol chiamare l’ottava maraviglia del mondo» [LAFFI, 1988: 37].
Questa asserzione, di certo sintomatica della grande considerazione in passato goduta dalla capitale portoghese, è estratta dalla relazione Viaggio da Padova a Lisbona – pubblicata a Bologna nel 1691 – di Domenico Laffi, sacerdote e scrittore bolognese [cfr.: DE CUSATIS, 1988: 17-22; CAPPONI, 1989]. Un diario di pellegrinaggio che costituisce una ricchissima fonte di notizie sul Portogallo del Seicento e, in particolare, sulla Lisbona pre-terremoto, anteriore, cioè, al 1° novembre 1755. Una Lisbona, lascia intendere Laffi, che per la bellezza e la magnificenza dei palazzi, dei monasteri e delle chiese, per le ampie piazze e le strade popolate, per i numerosi e verdeggianti giardini, per il porto sovraffollato di navi, esercitava sui suoi visitatori un fascino particolare: «chi non vede Lisbona non vede cosa buona», così allora recitava – come ricorda lo stesso Laffi [cfr. LAFFI, 1988: 65] – un famoso proverbio.
Risulta chiaro, tuttavia, che non possono essere state le sole e propagandate bellezze, naturali e artistico-architettoniche, di Lisbona ad attrarre visitatori in Portogallo, il quale – è risaputo – fu in passato al centro di vasti interessi, sia pratici che culturali; interessi che determinarono un vero e proprio flusso d’immigrazione – soprattutto a partire dalla seconda metà del XV secolo – da molti Paesi europei, Italia inclusa.
Le prime notizie, più o meno documentate, sulla presenza di nostri connazionali in Portogallo, risalgono agli albori della sua formazione e indipendenza; più precisamente al 1139, anno dell’arrivo di Mafalda di Savoia, moglie di Alfonso I di Borgogna, e del suo numeroso seguito.
Tuttavia, è agli inizi del XIV secolo che iniziò a formarsi, soprattutto a Lisbona, un nucleo coloniale italiano che sarebbe diventato, con il trascorrere del tempo e fino a tutto il XVIII secolo, il più numeroso fra i nuclei coloniali presenti.
Già Fernão Lopes, nella sua Crônica de D. Fernando, parlava di una cospicua presenza di nostri connazionali, in maggioranza provenienti dal Nord Italia [cfr. LOPES, 1979: 5]. Una comunità molto eterogenea, composta, oltre che di diplomatici, nunzi apostolici, artisti, uomini di lettere e scienza, mercanti, banchieri, armatori, anche di gente di umili origini, semplici marinai o avventurieri, piccoli e medi commercianti, in una parola, diremmo oggi, “emigranti” in cerca di fortuna. Andarono così formandosi interi nuclei familiari, i cui discendenti, dai nomi spesso portoghesizzati, in alcuni casi sono ancora presenti nell’odierna società portoghese.
Tale flusso emigratorio, di certo complesso e che forse meriterebbe maggiore attenzione da parte degli studiosi, favoriva anche una cospicua presenza di viaggiatori e visitatori italiani, i quali, per affari, semplice curiosità, devozione pure – si pensi ai devoti di Sant’Antonio di Padova (è il caso, ad esempio, del sopraccitato Domenico Laffi) –, sostavano in Portogallo, il più delle volte nella capitale, per brevi o lunghi periodi.
Uno dei tanti viaggiatori italiani che visitarono il Portogallo fu Nicola Albani da Melfi, un nome ai più sconosciuto, autore di un manoscritto in due tomi (Viaggio da Napoli a San Giacomo di Galizia – 1743/1745), che si conserva presso l’Archivio del Centro Italiano di Studi Compostellani di Perugia (1).
Le poche informazioni che abbiamo su Albani ci sono fornite da lui stesso nel suo manoscritto. Nacque a Melfi (cittadina che oggi fa parte della provincia di Potenza), nell’allora Regno di Napoli, probabilmente nel 1715, da Leonardo Albano e Cecilia Volgar. Al momento di mettersi in viaggio, era alle dipendenze, come «servitore», dell’arcivescovo di Capua, monsignore Mondillo Orsini, dal quale si sarebbe congedato definitivamente, pochi mesi dopo il suo rientro in Italia, nel dicembre 1745. In seguito, avrebbe servito diversi signori nel sud della penisola italiana [cfr. DE CUSATIS, 1999: 87-89 (nota 17)]. Nulla sappiamo circa la sua morte.
Riferisco brevemente l’itinerario da lui seguito. Partito da Napoli l’11 giugno 1743 e dopo un viaggio via terra durato pressappoco cinque mesi e mezzo, Albani giunge a Santiago de Compostela il 25 novembre. Lasciata la città galega il 12 dicembre, entra in Portogallo da Tui, attraversando in battello il fiume Minho fino a Valença. Dopo varie soste – fra le principali, quelle a Viana do Castelo, Oporto, Aveiro, Coimbra, Batalha, Torres Vedras, Mafra, Sintra, Cascais – giunge a Lisbona il 4 febbraio 1744. Il 12 gennaio 1745 decide, per l’occasione dell’Anno Santo, di recarsi nuovamente a Santiago, facendo ritorno a Lisbona il 2 giugno. Il 22 dello stesso mese s’imbarca su una nave mercantile diretta a Livorno. Prosegue a piedi il cammino fino a Napoli, dove giunge il 3 ottobre 1745.
Questo manoscritto, redatto in un italiano molto colloquiale – farcito di non rare espressioni dialettali napoletane – e accompagnato da un ricco corredo iconografico (contiene, difatti, sei stampe, di cui una di Lisbona, cinque disegni e dieci acquerelli, cinque dei quali ritraggono Nicola Albani in Portogallo – gli ultimi quattro a Lisbona), è senza dubbio un documento di primaria importanza, e non solo per rappresentare uno dei più suggestivi esempi di letteratura odeporica legata alla tematica jacopea, ma anche per essere – insieme a quella del già citato Domenico Laffi e a quella di Lorenzo Magalotti, segretario al seguito di Cosimo III dei Medici nel viaggio che il principe toscano intraprese, fra il 1668 e il 1669, nella Penisola Iberica – una fra le più interessanti testimonianze di nostri connazionali sulla Lisbona e il Portogallo pre-pombalini.
Quasi tutto il 2° tomo (328 pp.) tratta dei circa diciotto mesi trascorsi da Albani in Portogallo, di cui undici nella sola Lisbona. Esso principia con l’esposizione dei motivi che lo spinsero a tale decisione:
«[…] detto mi fu in S. Giacomo da molti caminanti di varie Nazioni di vedere anche Lisbona, ch’era degna d’esser veduta, ed ivi fatta avrei la mia fortuna per esservi molti mercadanti napolitani; ond’io mosso dalla curiosità, com’anche di vedere i miei paesani, pensai di far il viaggio del Portogallo […]» (3) (2).
Da queste parole viene fuori l’anima multipla del nostro viaggiatore – alquanto comune ad altri pellegrini, e non solo laici, del tempo. Poiché a quella religiosa del devoto pellegrino si vanno in lui sommando altre due anime: l’anima itinerante del viaggiatore guidato dalla curiosità e dal piacere di girare il mondo, e l’anima, meno edificante spiritualmente, dell’uomo in cerca di fortuna, che, nel caso di Nicola Albani assumerà spesso una vera e propria connotazione picaresca. Connotazione, questa, che si potrebbe in parte far rientrare in quella «politica peregrinesca» (79), di cui egli stesso parla, e senza la quale, oltre a venir meno il sostegno giornaliero di molti pellegrini che si aiutavano con la sola elemosina, questi ultimi ben difficilmente si sarebbero potuti avventurare per le strade, popolate di truffatori, briganti e assassini della peggior risma. Un mondo, quello del pellegrinaggio settecentesco, fatto anche di pericolose tentazioni, di falsi pellegrini, e di cui il nostro viaggiatore è protagonista e cronista insieme. A tale proposito, egli nota:
«[…] chi è sciocco stia a sua casa, però sian cose lecite, ed oneste, e saper il fatto suo, e non esser trattato da ignorante» (79).
Come riferito precedentemente, lasciata Santiago, il 12 dicembre 1743, Albani entra in Portogallo per Valença do Minho. Qui si provvede di una «carta de guia», un salvacondotto per la libera circolazione nel regno portoghese che permetteva fra l’altro ai viandanti di presentarsi ai governatori o altre autorità sparse sul territorio e chiedere loro l’elemosina (14). Una pratica che consentiva a molti di far
«belli denari, che anche io per dir la verità mi ci sono profittato di mettere qualche denaruccio da parte, perché non vi è giornata che il passaggiere non passa 4 o 5 paesi il giorno […]» (15).
Dopo un viaggio, durato cinquantaquattro giorni, non privo di sorprese e intoppi, anche spiacevoli – è il caso dell’assalto subito ad opera di un brigante nei pressi di Ponte de Lima (episodio peraltro ritratto in uno dei dieci acquerelli e che mostra, in sequenza: 1. il combattimento fra Albani e il brigante; 2. il colpo sferrato a questi con il bordone; 3. il corpo del brigante riversato a terra privo di vita; 4. la fuga dello stesso Albani) – e dopo varie soste durante il percorso, il nostro viaggiatore, come già riferito, arriva a Lisbona il 4 febbraio 1744.
La sera stessa, in una locanda della città, fa la conoscenza di due connazionali, un calabrese e un abruzzese. Entrambi, la mattina successiva, lo accompagnano da un ricco mercante napoletano, un certo Ignazio Linguito, commerciante in aceto e acquavite, che lo assume.
Albani rimane dieci mesi al servizio della famiglia Linguito, assoggettandosi ai lavori più umili: lavapiatti, addetto allo scarico dell’«acqua sporca» e allo svuotamento dell’«orinale», cameriere, distributore porta a porta, cantiniere e così via (84-86). È interessante sottolineare come quattro bellissimi acquerelli riproducano le principali mansioni da lui svolte al servizio di tale famiglia napoletana.
Egli, che in Italia era servitore presso nobili e prelati e vestiva abiti «d’oro, e d’argento tutti abbordati, e perucche alla moda, e cappelli di castore» (88), deve sottostare alle ingiurie e ai maltrattamenti sia dei padroni che degli altri servitori, fra cui «due diavoli di Mori neri», che «aveano gran dominio» in casa. Quel che più di ogni altra cosa, tuttavia, lo fa «tarroccare» – ossia, «andar in colera» – è il sentirsi chiamare «muzzo» e non con il suo vero nome; un’usanza, nota Albani, diffusissima in tutto il regno portoghese, dove vengono chiamati «muzzi tutti quelli che servono tanto con livrea, quanto senza livrea» (87).
Al di là, però, delle sue peripezie e avventure – e ne racconta tante, alcune divertentissime, che denotano il tipico spirito scanzonato, a un tempo allegro e accomodante, dell’italiano meridionale in genere e del napoletano in particolare – è interessante soffermarci sulle descrizioni, accompagnate da considerazioni e giudizi personali, a volte singolari e divertenti, fatte da Albani su alcuni usi e costumi dei portoghesi dell’epoca.
«In primo dovete sapere – scrive – il modo curioso del vestire generalmente tanto uomini, quanto donne, com’anche l’ecclesiastici in tutt’il Regno, che giornalmente vanno vestiti tutti di nero per esser proibito dal loro Re di non poter vestire di colore, ma solo però alli forastieri vien permesso di vestire, come a lor piace» (48-49).
Per strada, le donne vanno vestite con un lungo manto a coprirle dalla testa ai piedi, «come fussero monache di casa», mostrando appena il volto, e con una lunga coda dietro il manto, «che pare cappa magna da cardinale», più lunga e a strascico nelle «vedove, o altre donne che portano lutti». Le contadine vestono – prosegue Albani –
«alla moda chiaiese di Napoli con le magnose in testa, e zoccoli alli piedi, e nelle dita delle mani portano molti anelli, e scese ne loro colli di catene d’oro di gran valuta, e molte portano doppie di diciotto traforate alla moda d’Armenia […]» (49).
Parlando, poi, delle donne di Lisbona, quanto a bellezza femminile – scrive – «credo che non vi sia città, che la possi superare» (97). Possiede «la più bella gioventù di tutta l’Europa», con un unico difetto, quello di acconciarsi in genere
«il viso con diverse sorti di conci, come a dir di nei, e rossi, che fin le labbra, e mammelle si vedono accomodate con detti conci, e non facendo ciò, lo tengono per un gran dispreggio, e particolarmente nei giorni festivi, mentre dicono che sia usanza del Paese, e non è vergogna, anzi lor grandezza» (98).
Gli uomini portano quasi tutti, sia d’estate che d’inverno,
«cappotti alla spagnola, cioè con certo cappuccio in dietro, che alzandolo detto cappuccio in testa, non si vede né tampoco il viso, in modo che non si puole distinguere, se sia uomo, o donna, o prete, o monaco, perché questi cappotti li portano anche le donne ecclesiastiche, e paiono, come fussero monaci domenicani» (49-50).
Ve ne sono alcuni, però, che in estate vestono lo «spolverino» e in inverno la «veste di camera, così pubblicamente per le strade, che pochi vestono di vestito intiero di giamberga» (50).
Quanto ai sacerdoti, non usano portare cappelli per strada, ma solo la
«barretta come andassero nella Chiesa, e quelli che sono non’anche sacerdoti, che sono chierici abbati, e studenti, portano il collare di S. Pietro in gola; non devono portare né cappello, né barretta, ma solo portar devono una lunga borza di panno nero, come fusse un sacchetto, stretto, e lungo alla schiavona, cosa veramente ridicola, per chi non sa l’usanza del Paese» (50).
Il Portogallo è per la quarta parte popolato di «neri», i quali però – tiene a chiarire Albani – sono tutti cattolici
«[…] e non v’è casa che non tengono gli loro Mori neri di donne, e d’uomini, e v’è il permesso, che maritar si possono le donne bianche con gl’uomini neri, ed uomini bianchi con le donne nere, e donne nere con gl’uomini neri; in modo che gli Portoghesi sono per il più di color olivastro, chiamato in loro lingua Mulatti» (51).
Tuttavia, è su Lisbona che Albani maggiormente si sofferma; sia sulle abitudini e usanze cittadine che sulla descrizione, pur se sommaria, di chiese – da lui ritenute le più «ricche» della Cristianità (96), quelle di Roma incluse (un’opinione, questa, condivisa da molti commentatori, italiani e non, dell’epoca) – e palazzi, essendovene alcuni privati «migliori assai» del Palazzo Reale (109) (3).
Fa un’allarmante considerazione sul tipo di costruzione adottata per le case, fatte quasi interamente di legname:
«[…] ogni picciola favilla di fuoco sarebbe capace d’incenerire qualsivoglia casa, tantoché in questo poco spazio, che qui dimorai, ho veduto abbruggiare diverse case […] e la maggior lor disgrazia [degli abitanti di Lisbona] è il non aver acqua a lor commodo, né hanno l’idea di far quella catena, che si fa in Napoli, che alle volte si darà fuoco a qualche casa, e così la lasciano abbruggiare, fin tanto che il fuoco non si smorza da sé, perché non sanno, che si fare, e mi dicono, che si siano estinte molte case per tal causa, mentre non vi è settimana che non sortisca qualche disgrazia per il detto fuoco» (105-107).
Albani parla anche dell’ «abbondanza de viveri, che dir si puole trovarsi quantunque desiderar si possi una mente umana», pur se, aggiunge, molto cari. In particolare lo sono il vino, la carne, la verdura e l’acqua potabile; quest’ultima, distribuita dai «venditori d’acqua», più cara d’ogni altra cosa, per esservi «una sol fontana chiamata oggi col nome di Cefari» (4), insufficiente a rifornire tutta la città (98-99).
Lamenta la mancanza di «chiaviche [e] condotti, come sono in Napoli ò altri luoghi» (102), notando che sono poche le case fornite di servizi igienici.:
«[…] tutti li loro bisogni li mandano a gettare alla riva del mare, come usano a Chiaia, e tal’ufficio lo fanno le donne nere, mentre ogni casa tiene la sua donna nera appaltata, e le sudette portano quei vasi pieni in testa, ed in braccio, come fussero creature di latte; ma alcune volte è da ridere a vedere quelle donne con due vasi, uno in testa, e l’altro in braccio, e con la loro pippa in bocca senza veruna vergogna, mentre così è l’usanza del Paese, ed alle volte qualcheduna di quelle ne casca per li mali passi, e precipitano sempre qualcheduno che si trova passando per detta strada, e succede spesse volte, mentre io ne ho vedute molte di queste funzioni per la gran quantità di queste donne nere che se ne vedono migliaia, e migliaia […]» (101).
Quelle famiglie – seguita – che non hanno
«il commodo di mandare a gettare per le dette donne, di notte tempo li gettano in mezzo alle strade, anzi non solo questo, ma anche tutte le sporchizie di casa vanno pure in mezzo delle strade, che la mattina poi sempre si trovano affangate di mille sporchizie […]» (102).
Ogni giorno all’alba, però, le strade vengono ripulite da «moltissimi scopatori mantenuti dalla città», cosicché, «prima che il popolo tutto si levi, si trovano già le strade tutte pulizzate» (102).
Lisbona, nota ancora Albani, è una città che presenta molti pericoli:
«[…] la sera bisogno è ritirarsi in casa prima d’un’ora di notte per non esser rubbato, ed ucciso ancora, perché vi sono moltissimi ladri, che non vi è mattina che non vi si trovano genti ammazzate, o pur spogliate, che anche di giorno fanno omicidi alle volte, e proditori ancora, senza esserci persona che prendesse detti malfattori, che io non la so capire, se sia per poco giustizia, o pur usanza del Paese, che tutto il rigore a quello che m’ho potuto accorgere, mi par che sia solo ne contrabbandi; ma essendo fuori della città, cioè a dir per il Regno, vi si usa tutto il rigore circa li ladri, mentre molti ne ho visti io giustiziare per il camino che ho fatto» (104-105).
Il 13 giugno 1744, Nicola Albani assiste alle sontuosissime celebrazioni organizzate in occasione della festa di Sant’Antonio:
«Tra l’ore 15 di detta mattina per la detta festività cominciò a venire la Corte Reale, in forma pubblica, appunto come fusse la Festa di Piedigrotta di Napoli, per visitare il Glorioso S. Antonio lor protettore, ed insiememente portandoli l’intiera paga di tutto l’anno, secondo usano li monarchi di quel Regno, che tengono S. Antonio come fusse un capitan generale di tutto il Regno, ed ogn’anno si fa la funzione di portarli la paga generale di tutto l’anno scorso.
«Sicché dirò che nella prima carozza ci andava il Re con la Reina [ossia, rispettivamente, Giovanni V e Maria Anna d’Austria], con 24 mute di seguito, cioè avanti, e dietro, e 100 alabardieri a parafango, senza guardie del corpo, che qui non s’usano; nella seconda carozza ci andava il primogenito Principe del Brasil [ossia, il primogenito Giuseppe] con sua moglie figlia di Spagna [ossia, Marianna Vittoria, figlia di Filippo V], e sue figlie infantine con 6 mute di seguito, e suoi alabardieri; nella terza carozza ci andava il secondo genito, D. Antonio, e due infanti fratelli del Re, D. Emanuel, e D. Pietro, con altre sei mute di seguito, e molti cavalieri a cavallo; ma di tutte le carozze non v’è n’erano altro che due che erano ricche, e tutte l’altre parevano che si ricordassero il possesso di S. Pietro in Roma, e tutti andavano vestiti di nero alla romana col pancotto in canna, e cappottiglio addosso, e doppo di questo seguito di carozze veniva una compagnia di soldati legieri di cavalleria, e nel smontare che fece il Principe del Brasile primo genito, li fu data in mano una coppa d’oro, che in essa stava la cedola dell’intiera paga, che dar si dovea a S. Antonio, e la detta fu ricevuta dal Cardinal Patriarca, che già v’era tutta la Cappella Reale, e fattasi già la funzione secondo s’usa, che è una delle più belle funzioni ch’io abbi mai veduto in Lisbona» (94-96).
Sempre a Lisbona, il 23 giugno dello stesso anno, gli si presenta l’opportunità di assistere a un auto-de-fé:
«[…] fu la giustizia fatta dal Sant’Ufficio, che qui s’usa ogn’anno, o al più ogni due anni; funzione degna anche d’esser veduta, ma rende gran terrore però in veder la morte di tanta gente, benché siano tutti giudei cascati nell’eresie, che sortendo tutti li giustiziandi dal Santo Uffizio tutti in processione con le loro insegne addosso secondo le condanne ricevute da Superiori, si portano nella Chiesa di S. Domenico, e di là si portano ad un certo luogo vicino la riviera del mare, dove far si deve la sudetta giustizia, cioè quelli solo, che sono di morte; de quali furono 34 che mandorono in galera in vita, ed altri 16 mandati in presidi in vita nell’Indie d’Ancona, ed altri 7 furono prima impiccati, e poi abbruggiati; ma uno però che era sacerdote nativo della città di Braca dell’istessa Nazione portughese chiamato D.Antonio de Olives maestro di scuola, caduto più volte nell’eresia, fu condannato ad esser abbruggiato vivo; ed altri 6 furono prima impiccati, e di poi abbruggiati, ed in questi 6 vi erano 3 donne, cioè una matrona, con due bellissime figlie zitelle, che condannate furono per causa di stregonaria, e l’altri 3 uomini, uno era Genovese, e l’altri due Portughesi per causa d’eresia; mentre l’Inquisizione di questo Santo Uffizio, per picciola cosa che mancano contro la Legge Cattolica, sono subito posti in detto Santo Uffizio, che perciò dir si puole che in questo Regno sono tutti perfetti cattolici per il santo zelo che ci ha il presente Re Giovanni V, che dir si puole esser un santo Re regnante» (109-110).
Pur essendo il Portogallo il regno «più ricco di tutta l’Europa» (51) e Lisbona una città «bella, e grande più d’ogn’altra città dell’Europa» (99), Albani giudica quest’ultima, e con essa lo stesso Portogallo, «assai infelice» per non esservi passatempi e divertimenti. Perfino a carnevale – nota – periodo in cui in qualsiasi altro Paese ci si diverte «con qualche passatempo carnevalesco», a Lisbona, «città così magnifica, nominata per tutto il Mondo, e ricca più d’ogn’altra città», nemmeno le maschere si usano. E qui non poteva mancare il confronto con la “sua” Napoli, fatta di «bella libertà, passatempi, e felicità», poiché «in’ogni tempo dell’anno vi sono divertimenti, e gale, sì per la nobiltà, com’anche per la bassa plebe» (111).
Un’ultima considerazione prima di concludere questo articolo, nel quale mi sono limitato a riportare le annotazioni e i giudizi, in qualche modo più divertenti o insoliti, espressi da Nicola Albani su alcuni usi e costumi del Portogallo epocale. Il contenuto, nella quasi totalità, di questo manoscritto, è la dimostrazione di come sia errato pensare che i diari di pellegrinaggio siano soltanto delle guide religiose, di interesse esclusivamente devozionale, specialistiche e “noiose”, farciti di sole indicazioni sulle distanze, gli alloggi, i luoghi di culto e le reliquie dei santi. In verità, sono spesso di piacevole lettura e presentano un interesse molto più ampio e articolato.
Alcune immagini estrapolate direttamente dal manoscritto di Albani.
2. Aguarela. Assalto por um bandido
3. Aguarela. Criado e taberneiro em casa Linguito
4. Aguarela. Em casa da família Linguito
Note
(1) Tale manoscritto sarebbe stato stampato in Spagna nel 1993 – purtroppo in pochi esemplari e fuori commercio – in una bellissima edizione bilingue italiano/spagnola [cfr. ALBANI, 1993].
(2) Sia questo che i successivi rimandi di pagina, sempre indicati fra parentesi tonde, sono estrapolati dal manoscritto originale [cfr. ALBANI, 1768].
(3) Chiaro riferimento al Paço o ai Paços da Ribeira, i quali vennero completamente rasi al suolo dal terremoto del 1° novembre 1755.
(4) Il riferimento, qui, è allo Chafariz do Rossio o anche detto de Neptuno – per essere la fontana abbellita con una statua in pietra raffigurante il dio pagano –, situato sul lato ovest dell’omonima piazza (Praça do Rossio) e costruito alla fine del sec. XVI; venne abbattuto nel 1786.
Bibliografia di riferimento
– ALBANI, Nicola, 1768. [manoscritto] «Veridica Historia ò sia Viaggio da S. Giacomo di Galizia di ritorno in Napoli fatto dal Sig.r Nicola Albani… Tomo Secondo…. In Napoli MDCCXLIII».
– ALBANI, Nicola, 1993. Viaje de Nápoles a Santiago de Galicia. Edición y versión castellana de Isabel Gonzales. Prólogo de Paolo G. Caucci von Saucken. Edición realizada por Edilán para Consorcio de Santiago, Madrid.
– CAPPONI, Anna Sulai, 1989. Vita e opere di Domenico Laffi. In Domenico Laffi, Viaggio in ponente a San Giacomo di Galitia e Finisterrae. Edizione e note a cura di Anna Sulai Capponi. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli: 14-22.
– DE CUSATIS, Brunello, 1988. Introduzione a LAFFI, Domenico, 1988, cit.: 1-29.
– DE CUSATIS, Brunello, 1999. Usi e costumi della Lisbona e del Portogallo del ‘700 nella relazione manoscritta di un viaggiatore pellegrino italiano, Nicola Albani da Melfi. In IDEM, Tra Italia e Portogallo. Studi storico-culturali e letterari. Antonio Pellicani Editore, Roma: 79-97.
– LAFFI, Domenico, 1988. «Viaggio da Padova a Lisbona». Itinerario portoghese. Edizione critica, introduzione e note di Brunello De Cusatis. Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.
– LOPES, Fernão, 1979. Crónica do senhor rei Dom Fernando nono rei destes regnos, por Salvador Dias Arnaut, Livraria Civilizaçao Editora, Porto.
[Questo articolo – qui rivisto e ampliato – è stato per la prima volta pubblicato in portoghese, con il titolo Usos e costumes de Lisboa e do Portugal do século XVIII – o relato do viajante-peregrino Nicola Albani de Melfi, in «Nova Águia. Revista de Cultura para o Século XXI». (Sintra) N° 23 – 1° Semestre 2019: 144-149]