Il grande problema di chi è chiamato a scrivere la cronaca di un concerto importante – o addirittura storico, come in questo caso – consiste nell’operare la seguente scelta: provare a essere, per quanto possibile, oggettivi oppure optare per un racconto personale, privato, nella speranza che risulti interessante per i proverbiali venticinque lettori e che almeno una manciata di essi possa in qualche modo identificarvisi. Siccome lo scorso 18 giugno ho assistito presso lo stadio Olimpico di Roma, assieme a Fabio, mio fratello minore, che bontà sua mi ha regalato il biglietto, al concerto evento “Venditti e De Gregori” (va scritto così, mettendo prima il cognome di Antonello e poi quello di Francesco, perché – con buona pace dell’ordine alfabetico – ciò ha stabilito il lancio di una monetina fra i due amici-colleghi), e dal momento che Michele De Feudis mi ha chiesto di farne un resoconto per “Barbadillo”, con tale dilemma ho dovuto nella circostanza misurarmi io. Ci ho pensato un po’ su, non troppo perché sono come al solito in ritardo nella consegna del pezzo, e ho deciso infine di raccontare l’esperienza dal mio punto di vista. Per due ragioni: la prima è che mi risulta più facile, la seconda è che, pur avendo goduto di un’invidiabile postazione centrale in tribuna Monte Mario (grazie ancora, Fabio), senza i due provvidenziali maxischermi approntati per l’occasione avrei sì ascoltato un eccellente concerto ma di fatto non avrei visto nulla, se non alcuni microbi (Venditti, De Gregori e i musicisti al loro seguito) esibirsi sull’amplissimo palcoscenico. Con tutto il bene che un romano (pur di fede calcistica juventina, come il sottoscritto) può volergli, infatti, l’Olimpico, complice la nefanda pista di atletica, è obiettivamente un luogo nel quale la visibilità oscilla sempre, ovunque ci si trovi, fra il pessimo e il mediocre. Adesso pare che la nuova proprietà americana della A.S. Roma sia determinata a realizzare un nuovo stadio, più piccolo e senza pista di atletica, nel quartiere di Pietralata, praticamente (ahimé) sotto casa mia, quindi la loro prossima esibizione capitolina Venditti e De Gregori, a quasi ottant’anni, forse la faranno lì e io potrò compiacermi di ammirarli senza l’ausilio dei maxi schermi. Staremo a vedere. Ora però torniamo al 18 giugno.
Al concerto con la maglietta di Franco Battiato
Io al concerto di Venditti e De Gregori, a sfregio, mi sono recato indossando una maglietta di Battiato. Non perché non apprezzi Venditti e, soprattutto, De Gregori, tutt’altro: sono entrambi due cardini del mio bagaglio sentimental-culturale. L’ho fatto perché Battiato resta comunque il mio musicista prediletto (e poi è stato un mio amico) e anche per una forma di puerile anticonformismo. La t-shirt per di più era viola, colore che nel campo dello spettacolo è notoriamente, e stupidamente, considerato di cattivo augurio. Probabilmente questa stolida superstizione era ignota alla stragrande maggioranza dei circa quarantamila spettatori dell’Olimpico (e poi Battiato – che con De Gregori ha pure collaborato, arrangiandogli nel 2001 il brano “Il cuoco di Salò”, favore che Francesco ha ricambiato apparendo nel 2003 in “Perdutoamor”, opera prima cinematografica di Franco – gode giustamente di un rispetto pressoché unanime), sta di fatto che nessuno mi ha detto nulla, a differenza di quello che sarebbe successo se fossi andato a vedere una partita della Roma con la maglia della Juve (cosa che non escludo di fare, prossimamente). La performance di De Gregori e Venditti (stavolta voglio invertire i cognomi) è iniziata subito dopo le 21, quindi lodevolmente puntuale, preceduta dall’enfatica esecuzione dell’Also sprach Zarathustra di Strauss, quello eternato da 2001: Odissea nello spazio di Kubrick: una trovata autoironica (chissà se di Venditti o di De Gregori, io propendo per il primo) da apprezzare incondizionatamente. L’avvio scalda subito cuori e membra del pubblico pagante con una splendida Bomba o non bomba, che – destinata a divenire un classico del duo (non era la prima volta che Antonello e Francesco cantavano assieme, però all’Olimpico di Roma è ovviamente un’altra storia) – permette di capire subito una cosa di fondamentale importanza: l’acustica è, inaspettatamente, perfetta. Poi, è ovvio, il loro ce lo mettono Antonello e Francesco, grazie ai rispettivi e mirabolanti repertori e a una voce, ciascuno con le proprie caratteristiche, assolutamente impeccabile malgrado i settant’anni suonati; senza trascurare l’apporto dell’ottima band, composta da collaboratori storici dei due cantautori: Alessandro Canini alla batteria, Danilo Cherni alle tastiere, Carlo Gaudiello al piano, Primiano Di Biase all’Hammond, Fabio Pignatelli al basso, Amedeo Bianchi al sax, Paolo Giovenchi alle chitarre e Alessandro Valle al mandolino e alla pedal steel guitar.
Anche Giampiero Mughini in tribuna
Eseguita “Bomba o non bomba”, De Gregori brucia il pard pronunciando al microfono un sentito “Grazie Roma” (che è anche un omaggio ad Antonello, certo), ma Venditti si rifà sottolineando il godimento e la gioia derivanti dall’essere finalmente riusciti a far partire il tour, e proprio da Roma, dopo la forzata sosta di due anni causata dall’emergenza Covid. La scaletta prosegue con una sequela di pezzi da novanta in grado di stordire un bufalo, da “La leva calcistica della classe ’68” a “Peppino”, da “Bufalo Bill” (appunto) a “Ci vorrebbe un amico”, passando per “Generale” e “Nata sotto il segno dei pesci”. Tra i due artisti, quello che si fa notare maggiormente – concedendosi anche un paio di sigarette mentre canta – è Venditti, un po’ perché le sue canzoni si prestano di più a essere eseguite (e cantate dal pubblico) in uno stadio, un po’ perché, presumo in ragione delle sue più spiccate capacità vocali, partecipa a differenza di De Gregori, a quasi tutti i brani. Quanto all’abbigliamento, è per entrambi quello d’ordinanza: Venditti camicia scura e occhiali Ray-Ban a goccia, De Gregori camicia sbottonata fuori dai pantaloni e basco sulle ventitré. Si prosegue in scioltezza con una schidionata di altri capolavori, tipo “Notte prima degli esami”, “Rimmel”, “Pablo” e “Giulio Cesare” (e lì uno come me, che al Giulio Cesare ci ha fatto i cinque anni di liceo classico, si gasa in maniera speciale), fino a che non mi viene l’uzzolo di mandare un whatsapp al mio amico Giampiero Mughini, per sapere se è anche lui all’Olimpico. La risposta di Mughini, immediata, è un laconico “Sì”: risposta ovvia, visto che Giampiero è intimo di De Gregori e infatti, ci metto la mano sul fuoco, a differenza mia avrà assistito al concerto praticamente sotto il palco, comodamente assiso, in compagnia di sua moglie Michela, su una seggiola riservata e gratuita.
Tripudio di bis
Ai fomentatissimi spettatori vengono poi ammannite (non prima di un apprezzabile omaggio a Dalla di cui viene assai ben eseguita “Canzone”, scritta da Lucio con Samuele Bersani) “In questo mondo di ladri” (qui siamo già al Venditti fine anni Ottanta, orecchiabile ma ormai demagogico), “Sempre e per sempre” e – gran finale prima dei programmati bis – la suprema “Roma capoccia”, ineccepibilmente definita da De Gregori “La più bella canzone su Roma che un essere umano abbia mai scritto”. I bis sono cinque, vale a dire “Il vestito del violinista”, “Ricordati di me”, “Viva l’Italia”, “Buonanotte fiorellino” e “Grazie Roma”. Quest’ultima, ancorché magnifica, è canzone che non trascina il pubblico quanto dovrebbe fare l’ultimo dei bis, perché vuoi o non vuoi fra gli spettatori è comunque pieno di laziali, juventini, interisti, milanisti e via elencando. Quindi sarebbe meglio invertire, nelle prossime tappe del tour, la collocazione in scaletta di “Grazie Roma” con quella di “Roma capoccia”. Ma è un dettaglio e, posso assicurarlo io che romanista proprio non sono, va bene, va bene così, per dirla con un altro gigante a cui pure, come ad Antonello e Francesco, non si può che augurare lunga, lunghissima vita.
Hai rotto con questa continua citazione della rubentus.
Quindi se uno ritiene De Gregori intellettualoide, Venditti nevrotico e Vasco insopportabile, non ha diritto di esistere?