Edipo sale con la veste di Giocasta gettata sul suo corpo sporco di sangue. Sale i gradini del Teatro Greco di Siracusa, diretto verso un immaginario Citerione e porta con sé la sua tragedia. Il nostro dramma. Anzi Edipo si fa carico della cecità di ognuno di noi come un Cristo epico e pagano: noi ciechi e senza il coraggio di infilzare la fibbia della verità negli occhi. Edipo re di Sofocle nella regia di Robert Carsen è un monumento umano e teatrale. Umano perché nel denudamento della verità l’uomo sa assumersi la responsabilità delle colpe e del destino. Per Edipo la colpa si chiama incesto e omicidio, il destino ha gli stessi nomi: ecco la visione sofoclea dell’impenetrabilità del disegno divino, cui l’eroe giusto (Edipo lo è, basti pensare al seguito di “Edipo a Colono”) può soltanto arrendersi, caduta l’illusoria fiducia nella deduzione della ragione. Giuseppe Sartori è Edipo e ne assume il corpo fino alla resa tragica della sua stessa nudità. Immedesimarsi dentro un personaggio vuol dire farsi attraversare, prima con un piccolo taglio sulla pelle e poi lacerazioni. Ogni sticomitia è un indizio, ogni personaggio inconsapevolmente (Giocasta, lo straniero, il pastore) o necessariamente (Tiresia) procura un taglio con le sue parole, ogni parola allarga sempre di più la ferita. Inconsapevole è Giocasta, regina e moglie mai madre. Fino all’ultimo rifiuta la verità “ Non ti preoccupare delle nozze con tua madre: molti uomini, infatti, si sono uniti in sogno con la propria madre” e poi si dilegua, abbandonando la cintura con cui Edipo si accecherà (archetipo su cui Freud costruirà il suo sistema). Giocasta è una prepotente Maddalena Crippa e non poteva che essere lei.
Inconsapevole è lo straniero, il primo messaggero Massimo Cimaglia, che tante volte calca il teatro siracusano e tante volte impone garbo e forza. Inconsapevole, anzi reticente, il servo di Laio interpretato dal bravo Antonello Cossia.
Tiresia è interpretato da un gigantesco Graziano Piazza: reso cieco dagli effetti di scena, guidato dal suo bastone (anche questo attributo passerà significativamente a Edipo), Graziano Piazza caccia dentro il suo corpo che ruota come un derviscio scomposto e dentro la sua voce (da brividi il momento in cui Apollo si manifesta in lui) la potenza oracolare “tu sei l’empio che contamina questa terra”. Ottima e versatile anche l’ interpretazione di Sartori che fa salire e scendere il suo personaggio dalla scala, l’unico elemento scenografico, anche dei ritmi verbali, seguendo il movimento opposto e contrario del climax narrativo: la trama s’impenna e il personaggio man mano sottrae forza alla sua voce. Alla parola.
Il monumento teatrale edificato da Robert Carsen è un monumento alla parola. Schietta, feroce, forte, nuda. Che meraviglia, il silenzio che circonda la parola. Che meraviglia, la cavea contaminata solo dalla voce. Che meraviglia, essere stati scossi, percossi e commossi da ogni gesto, da ogni eco, da ogni parola di questo straordinario Edipo re. La parola è protagonista assoluta della messinscena. Carsen l’ha voluta lì, pietra tra le pietre. E dalle pietre si è alzata un’ovazione. Dodici interruzioni di applausi, quindici minuti di applausi finali accompagnati da grida di gioia e di commozione. Se catarsi doveva essere, è stata. Ed è stato il miracolo del teatro, se i giovani che più di tutti ieri sera riempivano le gradinate, sono stati rapiti dalla trama delle trame – così Carsen definisce la tragedia di Sofocle- accompagnando lo svelamento della verità con applausi ed esclamazioni fino al tutti in piedi finale. Un movimento istintivo che ha abbracciato e fuso il pubblico ed Edipo, il pubblico e il coro, il pubblico e la scena. Nudi tutti di fronte e dentro la nudità della scenografia di Radu Boruzescu: una scala grigia collega lo spazio della polis con il palazzo del potere e replica la cavea su cui siede il pubblico. O il popolo. O ognuno di noi.
Carsen ha dimostrato che la parola ha una tale complessità da farsi personaggio, scenografia, coreografia, musica. Frutto, questa sintesi, di una regia colta. A partire dalla disseminazione di simboli dentro una narrazione di crudo e funesto realismo, sottolineato dai costumi di Luis F. Carvalho.
Il regista e il drammaturgo Ian Burton, nella ricostruzione del processo di svelamento della verità oracolare, sorretti dalla bella traduzione di Francesco Morosi (un testo scabro che non si contamina di un classicismo di maniera né cede alla medietà linguistica della contemporaneità) traducono il duplice meccanismo tragico di Edipo re di Sofocle con due forme di geometria narrativa: il triangolo e il cerchio. In una sorta di traduzione della riforma sofoclea del terzo attore, i personaggi principali si assestano sulla scena, tra la scala e l’orchestra, a tre a tre in forma di triangolo isoscele.
Il coro, ottanta elementi tra allievi dell’accademia del Dramma Antico, attori professionisti e comparse, disegna cerchi e sezioni di cerchio sia quando si rivolge verso la scala sia quando si assesta accanto all’eroe sia, infine, quando dà la faccia al pubblico. Una resa scenica ideologica perché non c’è vertice di potere che duri per sempre in un mondo disegnato a priori dal dio: dice Creonte (Paolo Mazzarelli) “Io, per mia indole, non voglio essere re, ma piuttosto fare cose da re”. Ideologica ed estetica al tempo stesso, quando il coro sale per due volte la scala: una è una citazione da Magritte, la seconda un movimento corale (il coreografo è Marco Berriel, fedele a strofe e antistrofi) destinato a restare nella storia del teatro. Il coro si allunga sulle scale e guidato dal capo coro (Rosario Tedesco, sempre nella parte) e dalla corifea (Elena Polic Greco, suggestiva) e comanda un serpente di gesti (bellissima la macchia di colore delle mani che spicca sui veli neri dei coreuti) in cui sembra annidarsi la lezione sul coro contemporaneo di Einar Schleef, ripreso in Sportstück di Elfriede Jelinek al Burgtheater di Vienna nel 1998.
Carsen ha portato il pubblico in una Tebe svuotata dalla peste che lascia a terra cadaveri, sotto forma di stracci, e superstiti lugubri nel nero del lutto, commemorando senza retorica il tempo della pandemia, e ha raccontato come il potere vacilli quando il destino privato è costretto a farsi destino collettivo “La felicità di un tempo era vera felicità. Ma ora in questo giorno, è pianto, rovina, morte, vergogna”, sentenzia il secondo messaggero (Dario Battaglia). Carsen lo ha fatto immergendo il teatro nel silenzio, interrotto solo dalle poche ma belle musiche rumene di Cosmin Nicolae. Lo ha fatto senza citare la sua lunga esperienza di regista lirico a favore di un’interpretazione personale della contaminazione di classicità e contemporaneità che ha anche il sapore della sfida: Carsen dirige per la prima volta una tragedia greca. Tranne in un particolare, quando si materializza sulla scena il demone della Traviata (Carsen ne ha diretta una al Teatro La Fenice nel 2020): i brindisi di Giocasta ed Edipo. Ma in fondo, il loro è pur sempre un dramma borghese.
(Foto di Tommaso Le Pera, Maria Pia Ballarino e Archivio INDA)