Se il Natale è di certo da considerare, alla luce della nascita e adorazione del Dio Bambino, la festività per eccellenza della famiglia, degli affetti a essa legati, nonché, come diretta conseguenza, del calore di una casa; la Pasqua, a sua volta, è vista quale festa del massimo gaudio, sia perché “profanamente” rappresenta, cadendo nella stagione primaverile, il rifiorire e il risveglio della natura, sia perché “sacralmente” è la dimostrazione di come la Resurrezione di Gesù non fosse una vana promessa, fatta da un uomo ritenuto ai Suoi tempi un esaltato o tutt’al più un semplice Maestro da alcuni Suoi contemporanei, inclusi i Suoi stessi discepoli. La Pasqua è, quindi, per noi cristiani, “credenza”, “certezza della Redenzione”, “forza” ed “energia d’amore”, a un tempo. È “credenza” per essere la Risurrezione sinonimo massimo e indiscutibile della divinità di Gesù, trattandosi non di uno dei Suoi tantissimi miracoli compiuti durante la Sua vita pubblica e volti a lenire o dissipare per sempre gli altrui dolori e angosce, ma adesso è Lui in prima persona a incarnare la sofferenza, accomunandosi così a tutti gli altri uomini e facendo in modo che questa stessa sofferenza, trasfigurata dalla speranza, conduca alla Vita Eterna. È “certezza della Redenzione” poiché Cristo Crocifisso nel Suo duplice “atto” di morire e risorgere ci ha prima liberati dal peccato e poi ci ha ridato quei beni preziosi perduti con la colpa. È “forza” ed “energia d’amore” poiché alimenta e sorregge la speranza che anche noi possiamo risorgere.
«Noi quindi celebriamo la Pasqua in modo che non solo rievochiamo il ricordo d’un fatto avvenuto, cioè la morte e la risurrezione di Cristo, ma lo facciamo senza tralasciare nessuno degli altri elementi che attestano il rapporto ch’essi hanno col Cristo, ossia il significato dei riti sacri celebrati. In realtà, come dice l’Apostolo: Cristo morì a causa dei nostri peccati e risorse per la nostra giustificazione e pertanto nella passione e risurrezione del Signore è insito il significato spirituale del passaggio dalla morte alla vita» (Sant’Agostino, Lettera 55, 2)
Tali significative parole di Sant’Agostino altro non fanno che rimarcare l’esodo della Chiesa nella celebrazione del Mistero Pasquale. Tale esodo o cammino intrapreso dalla Chiesa nell’itinerario quaresimale, cui s’accompagna sia il percorso conducente alla rinascita dei credenti che la riconciliazione dei penitenti, va a culminare nella celebrazione solenne del cosiddetto Triduo pasquale – dal latino dotto triduu(m), ossia, che dura tre (tri-) giorni (dies) – tempo centrale dell’intero Anno Liturgico. In sostanza, nell’arco temporale di tre giorni la comunità cristiana s’immerge nella vicenda storica del Cristo Crocefisso e “simbolicamente” ritorna al dono pasquale che sempre si rinnova: la Pasqua di Cristo diventa la Pasqua dei cristiani. Quindi, i tre giorni Passionis et Resurrectionis Domini non segnano solo il transitus dei discepoli nel transitus di Cristo, non sono la sola rievocazione di fatti lontani per quanto significativi, ma rievocano anche – come ricorda Sant’Agostino – il «passaggio dalla morte alla vita» per il tramite del «significato dei riti sacri celebrati».
Ciò premesso, vado ad analizzare succintamente significato e collocazione del Triduo, anche con un breve accenno ad alcuni riti sacri a esso legati. Ad eccezione, tuttavia, di quelli della Domenica di Resurrezione, poiché sono dell’avviso che i lettori interessati a questa mia riflessione non abbisognano di delucidazioni su una solennità che fa parte del “DNA spirituale” di ogni fedele.
Allo stato delle norme liturgiche, pur se il Triduo temporalmente equivale a tre giorni, tuttavia non corrisponde, almeno “giornalmente”, a tale durata poiché si dispiega in quattro giorni – dal Giovedì Santo alla Domenica di Resurrezione (in realtà, questi due giorni non fanno parte interamente del Triduo, il quale ha inizio con la celebrazione vespertina del Giovedì e termina con la celebrazione vespertina della Domenica, ossia, precisamente, da un tramonto all’altro di questi rispettivi due Giorni Santi, dal che s’evince come la durata temporale effettiva del Triduo corrisponda all’incirca a 72 ore, ovvero, l’equivalente orario di tre giorni). Da ricordare come ciascuno di questi quattro giorni rappresenti una determinata solennità. Risulta importante, in tale contesto, il termine “solennità”, in considerazione del fatto che il Triduo non è un giorno liturgico e, di conseguenza, secondo il Rito Romano di forma ordinaria, un’unica solennità, ma è un tempo liturgico formato da più giorni e, va da sé, da più solennità. Tuttavia, secondo alcuni teologi il Triduo deve essere considerato a tutti gli effetti come una solennità. Un’opinione evidentemente espressa in termini di paragone e non di qualificazione, e la quale, se non proprio erronea, risulta però imprecisa, rischiando d’ingenerare confusione se utilizzata in ambiti “impreparati”.
Materia alquanto complessa, quindi. Una complessità dovuta in massima parte al giorno del Giovedì, il quale è entrato a far parte del Triduo pasquale solo a seguire la Riforma del Concilio Vaticano II. Difatti, il Giovedì Santo appartiene a due tempi liturgici: è l’ultimo giorno della Quaresima e l’inizio o l’introduzione, con la Messa in Coena Domini, del Triduo stesso, che termina con i secondi vespri della Domenica di Pasqua. Altra “complessità”, sempre legata al Giovedì Santo, è quella della Messa crismale, solitamente celebrata la mattina e dai vescovi nelle Cattedrali. Tale celebrazione, pur non appartenendo al Triduo, è pur sempre un atto liturgico solenne, nel corso del quale sono consacrati gli oli da utilizzare durante tutto l’anno per i Sacramenti del Battesimo, Cresima e Ordine Sacro e per l’Unzione dei Catecumeni e degli Infermi nella Veglia di Pasqua. La Storia, tuttavia, riferisce che tale celebrazione non è legata in modo fisso a quel giorno. Ci è stata tramandata soltanto come l’ultima messa di Quaresima prima della celebrazione della Veglia. Difatti, sia il Venerdì Santo che il Sabato Santo sono ritenuti tradizionalmente giorni aliturgici, ossia, senza la celebrazione dell’Eucarestia. Una prassi ancora fermamente rispettata da diverse Chiese, quali quelle di rito protestante.
Quanto, poi, alla Messa in Coena Domini non si rintraccia alcun accenno a essa nella Tradizione Romana, per lo meno fino al VII secolo. Nei secoli a seguire si registreranno alcune “trasformazioni” liturgiche nel giorno del Giovedì, fino a giungere ai riti odierni, rivisti e/o introdotti sia dalla prima riforma del 1955 che da quella del Concilio Vaticano II.
Passando al Venerdì Santo, i sentimenti più rilevanti sono ovviamente la mestizia e il dolore, nel ricordare la Passione e Morte di Gesù, con la sua sepoltura. Senza dimenticare il digiuno assoluto per i fedeli fra i diciotto e i sessant’anni e l’astinenza dalle carni per gli adolescenti con più di quattordici anni. Pur non facendone un obbligo per i fedeli, la Chiesa ritiene degno di lode colui che estende tale precetto generale, il 4°, anche al Sabato Santo, fino alla Veglia Pasquale. Dall’antichità tale giorno è stato aliturgico. Come riferisce San Giustino nella sua Prima Apologia, il nucleo della celebrazione è la Parola di Dio e, soprattutto, la Passione secondo Giovanni (Giustino, I Apol. XLIX, L. 1-5). Oggi, la celebrazione del Venerdì Santo nella Chiesa Romana non è molto diversa dalla struttura celebrativa originaria. Con l’eccezione dell’introduzione della comunione dei fedeli, voluta nel 1955 da Pio XII.
Nel Sabato Santo predomina il silenzio, la meditazione, il raccoglimento, per rispetto di Gesù che giace nel sepolcro. Diversamente dalle Chiese Orientali, che celebrano la discesa di Cristo agli inferi e il Quale rompe le porte dell’Inferno, redime e libera i Santi, che da secoli attendevano la Sua resurrezione, la Chiesa Romana non ha mai istituito alcuna celebrazione in tal senso. Sostanzialmente, quindi, per quest’ultima il Sabato Santo è la celebrazione del tempo sospeso, tempo che ritornerà a scorrere solo con la Veglia della Notte Santa: la Madre di tutte le veglie, come la definisce Sant’Agostino, poiché rappresenta Totum Pasquale Sacramentum.