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La dittatura del Bene. Che “bene” non è. Una tra le noie più grandi dei nostri giorni consiste, essenzialmente, in questo. Il conformismo travestito da ribellione. La cantilena del politicamente corretto, del verbo mondialista, che stabilisce a senso unico nuovi comportamenti, nuovi modelli. Nuovi modi di pensare. E chi non si adegua è un reprobo, uno da marginalizzare, da squalificare.
Una cappa del resto arriva ad avvolgere ogni landa, invade il dibattito pubblico, politico, gli ambiti dell’istruzione, della religione, il mondo del cinema, addirittura le dimensioni dello sport e del pallone.
È la giungla della modernità, insomma. Dove il presente vuole depurare il passato, lo vuole annullare. Dove gli equilibri naturali sono stati seppelliti, dove le specificità dei popoli scompaiono nel livellamento globalista generalizzato. Il clima sospettoso si abbatte sul dialogo, scoraggia la pubblicazione di opere e lavori originali: tutti potenzialmente accusabili di intaccare la sensibilità altrui, tutti potenzialmente tacciabili di non stare dalla parte dei buoni. Alain de Benoist, voce scomoda della contemporaneità, ha sottolineato che “è dunque appunto un nuovo ordine morale quello alla cui costituzione stiamo assistendo; un ordine nel nome del quale si procede ad un’‘epurazione etica’”.
Sembra essere sulla stessa traiettoria il recente saggio scritto a quattro mani da Luca Ricolfi e Paola Mastrocola, il Manifesto del libero pensiero (La nave di Teseo, in edicola con la Repubblica): una critica pungente, affilata, che denuncia le convenzioni e le pretese manichee del politicamente corretto e che sistematicamente ne demolisce le contraddizioni, l’aura onnidirezionale e al contempo impositiva. Il testo tocca vette di anticonformismo interessanti. Un’ottima bussola per i navigatori che continuano ad orientare la prua controcorrente, nonostante l’atmosfera circostante. Tra i fogli del libro si legge, ad esempio, che al posto della classica censura si sta installando una censura “tecnologica e privata, non di rado fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare ogni contenuto o parola potenzialmente lesiva di qualche principio etico assoluto, o di qualche sensibilità – individuale o di gruppo – giudicata degna di protezione”.
Ancora, l’inchiostro delle pagine non manca di palesare la sua avversione nei confronti della “furia nominalistica”, che pretende di dirci come dobbiamo chiamare le cose e le persone, che imbavaglia la parola e dirige il nostro vocabolario, e nei confronti della cancel culture, che esige di “togliere dalla vista qualsiasi opera o manifestazione del pensiero che collida con i sentimenti oggi dominanti e che possa apparire offensiva per il singolo o per una o più categorie di persone”.
Ogni incrostazione è efficacemente smontata. Dalla “dittatura dell’utile”, in cui soccombono la bellezza e l’ingegno umano, al “razzismo al contrario”, “forse la più reazionaria e aggressiva fra le ideologie contemporanee”. Dall’“eclisse dell’ironia”, segno dell’odierno “‘appiattimento’ cognitivo e culturale”, alla tattica degli “anti”, che lacerano il terreno della civile discussione finendo per spedire nei rispettivi gironi infernali coloro i quali si permettono di sostenere che in questa realtà qualcosa non va.
Ma c’è dell’altro. Il duo riconduce a una certa sinistra la causa di una simile temperie. “Poco per volta”, afferma, “l’intellighenzia progressista si schiera risolutamente dalla parte della censura”. “L’ideologia fondamentale del mondo progressista”, evidenzia infatti la coppia, “è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment”. L’obiettività è apprezzabile. Soprattutto se consideriamo che Ricolfi medesimo non ha mai nascosto di essere di sinistra, seppure non in linea con la sinistra saccente o moralista.
Bisogna dunque asserire che il Manifesto del libero pensiero sia un contributo letterario importante. Che andrebbe analizzato, approfondito. Perché ci riconsegna il gusto aspro della libertà, quella che deve essere conquistata e sempre difesa. Perché ci suggerisce di remare sbrigliati, anche quando i canoni vigenti tentano di ammansirci, di inibirci. Quanto serve, in epoche che della massificazione fanno la propria cifra esistenziale.