Un romanzo non nasce compiuto, come Athēnâ dalla mente di Zeus, dalla penna del suo autore. L’idea iniziale somiglia di più a un abbozzo da definire in disegno, arricchire di dettagli fino a trasformarla.
Nel nuovo romanzo di Pietrangelo Buttafuoco (da oggi in libreria) convivono una pluralità di temi noti a chi conosce i suoi libri; sentenze che tornano, in qualche caso alla lettera, c’è una folla di personaggi, protagonisti e comprimari, ma il disegno che li accoglie, il principio guida dove l’opera trova ispirazione e inscrive le sue coordinate è l‘incisione di Durer “ Il cavaliere, la morte, il diavolo”.
I personaggi dell’incisione entrano in scena in ordine inverso nei tre atti che scandiscono la storia, per poi ricongiungersi nel doppio finale con il quale l’autore suggerisce che tutto può accadere, tutto passa e la storia che si chiude non è certo l’ultima per il diavolo.
La fabula si riassume in poche righe, basta scorrere il risvolto di copertina, ma la trama si sviluppa in un intreccio di ben trecento quarantanove pagine, dove la vicenda viene allestita con quel gusto per il racconto scenico che spiega l’uso ampio fino alla ridondanza del dialogo diretto.
Tutto accade nell’entroterra siciliano, si risolve a Roma e cerca la sua conclusione sulla banchina del porto di Genova, dove tutti i protagonisti si ritrovano sulla ribalta.
Ritroviamo figure note del presepe Leonfortese come lo zio Nino e Lia (la zia vestale della tradizione in “ Il dolore pazzo dell’amore”) che nel 1951, anno in cui si svolgono i fatti, ha sedici ed è spettatrice reale e ideale dei casi inauditi ai quali assiste, corazzata nel suo ricorrente “non si devono permettere” con cui esorcizza ciò che può turbare l’ordine rassicurante del suo orizzonte.
“Come da un palco del teatro Roma- così dai riquadri della porta di casa sua- Lia osserva da spettatrice la pioggia. L’acqua cade dal cielo disegna sul vetro un pentagramma in cui le gocce rigano la superficie e creano la partitura che la ragazza vorrebbe tanto saper leggere” (p.166).
Lo spartito dell’adagio n.23 di Mozart l’ha donato a Lia Ottavia, pianista talentuosa, la belle dame san merci che porta lo scompiglio nella piccola comunità leonfortese, dove il calendario segue il ritmo della vita contadina e la storia entra con la scadenza elettorale, nella quale il candidato è Nino, autentico Orlando nel teatro dei pupi inscenato da un autore che, nel tirare i fili, alterna la tenerezza e la parodia, il sorriso e lo sberleffo. Attraverso Ottavia due mondi si confrontano: quello “entre nous” dell’aristocrazia siciliana del jet set internazionale e quello di Rodolfo, barone di dubbia baronia, marito della principessa Ottavia di Bauci, nel quale ritroviamo i tratti brancatiani di esistenze pigre, spese nell’ammazzare il tempo senza vivere la vita tra il Circolo di compagnia, il vagheggiamento delle fimmini, qualche viaggio e le cure di mammà. Non pare vero a Rodolfo di essere stato eletto da tanta bellezza (“Non mi pare manco vero avere una moglie così bella, sembra finta.”)
Accompagnata dal torbido passato di un’adolescenza dedita a strani rituali, Ottavia è contesa tra l’amore per il marito e la tentazione diabolica di liberarsi di lui e dal luogo in cui l’ha portata a vivere. È tutta una danza macabra in chiave grottesca il gioco che Famelico, diavolo meschino e maldestro, ignaro della seduttiva logica di Mefistofele, dovrebbe governare attraverso Lucy, amica di Ottavia in visita a Leonforte. Vittima autentica, oltre al caro estinto, sarà Oreste, l’umile capomastro del quale Ottavia si è invaghita che, innocente, subirà una condanna irreversibile.
Il diavolo e la morte hanno fatto la loro parte, quando entra in scena il Cavaliere.
L’eroe di guerra cieco e mutilato, deputato monarchico e amico di Pietro Nenni, Carlo Delcroix. Sarà lui a raccogliere la confessione di Ottavia che non comporterà però né ripristino della giustizia (Ottavia prende atto che i privilegi di quelli che vivono “entre nous” valgono anche nelle aule di tribunale dove a volare sono sempre gli stracci) né autentica redenzione.
Nel doppio finale un inverosimile rientro in scena del fantasma di Rodolfo ci suggerisce che l’unico ad aver compiuto la sua bildung sia lui, da morto, perché attraverso la morte ha conquistato la verità e può pagarne tributo alla Morte, al Diavolo e al Cavaliere, nonché trovare il senso delle parole di Goethe che Ottavia gli ripeteva nelle ore d’amore, che dell’amore sanciscono il compimento.
Il secondo finale, affidato a Ottavia, la femme fatale che veste Givenchy, evoca un’aura faustiana e si configura come compimento-inizio, eternato nell’attimo che ritrova l’armonia, laddove “Le pazzie sono cose che passano”.
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