Coltivare il pensiero critico per sopravvivere al conformismo asfissiante che contraddistingue lo spirito del tempo: è l’accorato appello rivolto dal filosofo francese Alain de Benoist nel pamphlet “La nuova censura – contro il politicamente corretto” pubblicato da Diana edizioni.
Tre fattori principali determinano l’emarginazione sostanziale delle idee “pericolose” nel contesto post-moderno: un ordine morale basato su una società giusta e orientato a screditare i pensieri scomodi in quanto cattivi, accostando spesso il male al gergo del vocabolario medico; il consolidamento del “politicamente corretto”, una sorta di eugenetica lessicale negativa – così la definisce Pierre Andrè Taguieff – derivante dal puritanesimo statunitense che, di pari passo con l’esplosione di una metafisica della soggettività, rivendica la difesa dei diritti di gruppi disarticolati di individui che si atteggiano nel ruolo di vittime fino a prevaricare le istanze della maggioranza; il radicamento della censura non più nei poteri pubblici, ma nel circuito autoreferenziale dei mezzi di comunicazione di massa.
Originariamente rintracciabile nelle teorie che, sullo sfondo di una visione meccanicistica dei fenomeni sociali, reinterpretano alla luce dello spirito tecnico la politica derubricandola ad una questione di gestione amministrativa risolvibile con il calcolo razionale, il pensiero unico si radica grazie all’inevitabile arretramento della sfera d’azione di quest’ultima, erosa sia dalla crescita d’influenza del sistema mercantile di sfruttamento capitalistico – in tempi più recenti caratterizzata dal trionfo dei processi di globalizzazione a danno delle identità collettive e delle specificità politico-culturali – sia dalla concezione liberale che sostiene la neutralità dello Stato con riferimento alla sfera dei valori.
Fenomeni di intolleranza si moltiplicano in un’atmosfera da “caccia alle streghe” secondo le modalità imposte dalla “cancel culture”: il valore dei prodotti letterari, intellettuali o artistici del passato viene misurato – annullando macroscopiche differenze di epoche e contesti – in base all’adesione all’ideologia del momento. Lo stravolgimento della toponomastica o la rimozione dalle facciate degli istituti scolastici intitolate a illustri personaggi del passato riempiono le cronache, mentre viene spesso attribuita all’autorità giudiziaria la competenza di stabilire la verità storica, colpendo anche le opinioni espresse in maniera indiretta o allusiva.
La demonizzazione è quindi l’anticamera di un rifiuto sistematico del dibattito e delle argomentazioni che dovrebbero confutare ipotesi o principi dal punto di vista vero/falso: caratteristiche simili a quelle che Michel Foucault ha individuato nella “polemica come figura parassitaria della discussione”, laddove il polemista è evidentemente convinto di rappresentare una giusta causa superiore a idee considerate intollerabili. La condanna di qualsiasi costruzione intellettuale che contraddica la filosofia dei Lumi – fondamento delle attuali società occidentali – poggia sul ricorso continuo a quelle che l’autore definisce “due imposture”: l’antifascismo e l’antirazzismo.
Prevalentemente chiamate in causa senza rigore descrittivo e talvolta con approssimazione anche in ambito accademico, le due categorie vengono ormai applicate a tutti gli usi, ridotte a luoghi comuni e presentate come onnipresenti, pur essendo in realtà riconducibili a gruppuscoli marginali. Costantemente proteso ad agitare lo spauracchio del fascismo eterno, nello stesso momento in cui dichiara di prefiggersi l’obiettivo di sconfiggerlo una volta per tutte avvitandosi in un’interminabile riproposizione del passato e mascherando una cronica incapacità di analisi dei problemi presenti e futuri, l’antifascismo contemporaneo è distinguibile da quello degli anni trenta perché non alternativo, bensì parte integrante della società capitalistico-borghese. L’ideologia che sostiene l’ineguaglianza delle razze viene, d’altro canto, confusa non di rado con la xenofobia, all’interno di un percorso logico che ne enfatizza a dismisura i caratteri irrazionali.
Non è, quindi, sufficiente denunciare il nazismo quale terribile regime totalitario ma è necessario descriverlo come una specie di incarnazione del male assoluto, attribuendo anche alla persecuzione degli ebrei caratteri di unicità del tutto incomparabili con qualsiasi altra nefandezza della storia. Nel rievocare la reductio ad hitlerum – l’espressione coniata da Leo Strauss per indicare il discredito automatico e perenne riservato a chi o a cosa viene polemicamente assimilato al Terzo Reich – l’autore evidenzia che il culto dell’unicità applicato ad un avvenimento storico implica il rischio di un’analisi da una prospettiva moralistica che lo rende incomprensibile, relegandolo di fatto in un ambito metafisico.
Viene di conseguenza ignorata l’immagine – acutamente proposta da Denis de Rougemont – del nazismo come patologia della modernità, ovverosia della sua natura di erede illegittimo ma incontestabile di quella filosofia del Lumi che si prefiggeva di combattere: due fenomeni convergenti nelle mentalità centralizzatrici, nell’ossessione dell’unità concepita come blocco, nell’esaltazione della nazione come missionaria di un’idea, nello stesso senso attribuito alle feste simboliche.
Non senza soffermarsi sul piano differente riservato dall’opinione pubblica alla Germania nazionalsocialista e allo stalinismo – quest’ultimo generalmente oggetto di una moderata riprovazione – e sulle ragioni di una mancata comparazione (insite principalmente nel fatto storico decisivo dell’alleanza fra le democrazie liberali e il comunismo sovietico durante la seconda mondiale, che gettò le basi dell’ordine politico scaturito dopo il 1945), de Benoist mette in guardia il lettore dalle “trappole” distorsive della memoria concepita come ricordo rigido, chiuso alle possibilità di critica e potenziale custode di odi e rancori mai del tutto sopiti.
Criminalizzazione dell’avversario e ricerca di capri espiatori, apologia dell’omicidio e istigazione al linciaggio, segregazione ideologica sono pratiche comuni della nuova classe dei nuovi inquisitori – “orfani” del vangelo marxista – di una società che si illude di riconoscere e garantire una libertà di espressione nei fatti abbondantemente limitata dal ritorno della censura, dalla repressione dei sentimenti e delle opinioni.
La formidabile disponibilità di mezzi di sorveglianza e controllo di oggi rispetto alle epoche dei vecchi regimi totalitari suggerisce ulteriori spunti di riflessione sia con riferimento alle conseguenze talvolta deleterie dell’incessante sviluppo tecnologico (basti pensare alle potenzialità di Internet quale luogo di schedatura diffuso a livello planetario), sia relativamente al dominio incontrastato della televisione come strumento di controllo sociale in grado di dettare i tempi dell’agenda politica, incentrato tanto sul primato dell’immagine tanto su quello dell’avvenimento mostrato in tempo reale, caratteristiche che pregiudicano qualsiasi stimolo alla riflessione.
Disciplinato al proprio interno da una logica di mercato che equipara l’informazione – in genere oggi sovrabbondante e poco credibile – alle altre merci, conferendo rilevanza nella migliore delle ipotesi al suo tasso di verosimiglianza, l’intero sistema dei mass media ha una natura fortemente omogeneizzante che riduce ad uno stato di passività il proprio consumatore. Si configura, così, come un inganno il cosiddetto pluralismo dei media: pilotata dalle costrizioni del mercato la concorrenza, di per sé già propensa a ridurre stili e contenuti a stereotipi, è inconciliabile con l’espressione democratica di un’opinione collettiva illuminata, riflettendosi piuttosto nell’ordine mondiale “consensuale e televisivo” preconizzato da Jean Baudrillard.
Nel più ampio scenario della mutazione dello Stato da assistenziale a “materno e protettivo”, De Benoist evidenzia con estrema lucidità e chiarezza le contraddizioni dei meccanismi che – di fronte alle domande di sicurezza crescente di una società poco o per niente propensa a convivere con i rischi – possono indurre i poteri pubblici nella tentazione di estendere il controllo dell’ingegneria sociale in modo abnorme con il consenso di una maggioranza di cittadini disposti a rinunciare, in tutto o in parte, alle proprie libertà. Al pari di una strumentalizzazione dell’ideale di trasparenza – oggi piegato a quello dell’open government delle società aperte che consente di osservare e controllare tutto – la scomparsa del rapporto critico tra i media e l’ideologia dominante ne costituisce solo uno dei numerosi e inquietanti segnali.
‘…l’antifascismo contemporaneo è distinguibile da quello degli anni trenta perché non alternativo, bensì parte integrante della società capitalistico-borghese’. Storicamente tale affermazione è fondata sul nulla. Tralascio il resto…
Meglio se tralasci tutto…
DE Benoit è un analista fine, ma talora generalizza. L’antifascismo degli anni ’30 era variegato, ma in gran parte era integrante della cosiddetta società capitalistico-borghese (peraltro formula giornalistica raffazzonata).