Tra i tanti tabù sulla storia della nostra Repubblica c’è sicuramente quello della “continuità” tra fascismo e sistema politico del dopoguerra. Non solo nei gangli amministrativi, ma anche in quelli sindacali e politici molti protagonisti della macchina del regime tornarono protagonisti dopo il 1945. La Cgil beneficiò largamente delle classi dirigenti sfornati dalle scuole sindacali del ventennio, mentre il mondo culturale si riempiva di tanti giovani mussoliniani “convertiti sulla via di Damasco” più o meno sinceramente: Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Eugenio Scalfari e Dario Fo solo per fare i nomi più noti. Persino diversi protagonisti dell’Assemblea Costituente avevano maturato larga parte del loro bagaglio culturale durante il ventennio, nella Democrazia Cristiana in primis, tanto che Sabino Cassese ha scritto: «Si pensi alla continuità tra alcune affermazioni del codice del 1942 (e della stessa “Carta del Lavoro” del 1927) e talune disposizioni della Costituzione (ad esempio, quelle in tema di proprietà e iniziativa economica); si pensi alla proposta fatta da un sindacalista socialista, nel dopoguerra, di mantenere in vita le corporazioni, democratizzandole; si pensi alla continuità costituita dal permanere in vita di tanta parte della legislazione del periodo 1930–1940, spesso costituita da norme che erano il frutto del naturale processo di adeguamento delle istituzioni al mutare delle condizioni economiche e sociali».
Tra tutti i personaggi coinvolti in questi passaggi storici, il nome più influente fu quello di Amintore Fanfani. Brillante e giovane professore della Cattolica di Milano, tra le due guerre fu un acceso sostenitore del corporativismo e del tentativo di superare sia il capitalismo e il comunismo attraverso una “terza via” economica e sociale. Tra i suoi scritti degli anni ’30 riveste importanza centrale “Le origini dello Spirito capitalistico in Italia”, datato 1933 e appena ristampato dalle edizioni Ar. Si tratta di un testo di importanza epocale: con il suo studio, l’aretino intendeva porsi in scia e superare studiosi del calibro di Werner Sombart e Max Weber, il quale ultimo aveva coniato la celebre teoria dell’importanza dell’etica protestante (con la sua idea di “predestinazione” per la salvezza utraterrena, che spingeva gli uomini a cercare il successo economico quale segno tangibile di essa) per la formazione dello spirito capitalistico. Come ha sintetizzato Sabino Morano nella postfazione al volume, «i seguaci del Protestantesimo (specie nella sua declinazione calvinista) ritenevano che fosse un dovere impegnarsi con zelo nella propria attività, in quanto il successo economico avrebbe dato fulgore a quelli segnati dalla benevolenza divina (…). Questa visione specifica (…) portò Max Weber ad affermare che nessuna altra tradizione religiosa (specie quella dei “puritani”), aveva indotto il popolo a vedere nell’accumulo di capitale (e nel risparmio di denaro) un segno della grazia eterna di Dio». Ecco perché, secondo lui, l’Inghilterra o i Paesi Bassi erano arrivati prima e meglio dei paesi cattolici come Italia e Spagna.
Per Fanfani non è completamente così. Lo scisma protestante è solo un acceleratore di un processo che comincia ben prima, quando nel 1300 i valori cattolici cominciano a entrare in crisi: un forte sviluppo dell’economia porta molti uomini a mirare ad agi e lussi, mettendo in parte in crisi il pensiero del tomismo e della scolastica improntato alle idee di povertà e “giusto mezzo”. Nasce lentamente un nuovo spirito borghese legittimato, con tutte le complessità del caso, da autori quattrocenteschi quali Tommaso De Vio e Leon Battista Alberti. Il libro di Fanfani si configura dunque come un affascinante viaggio dal Medioevo al Rinascimento italiano, tra testi d’epoca, dibattiti, guerre, scambi commerciali e ascesa di nuovi protagonisti sulla scena politica, economica e sociale. Uno spaccato che ci restituisce una profondità culturale e una capacità critica sempre più lontane ai giorni nostri.
Fanfani, un politico da riscoprire
La critica al capitalismo e la necessità di un nuovo modello sociale rimasero delle costanti del pensiero fanfaniano anche nella Dc. L’articolo 1 della nostra Costituzione, che parla di «Repubblica democratica, fondata sul lavoro», fu promosso proprio dall’aretino in opposizione alla «Repubblica di lavoratori» che voleva Togliatti, animato dall’idea di lotta (e non collaborazione) di classe. In questo passaggio, Gaetano Rasi ha individuato nell’opera di Fanfani il portato, consapevole o meno, dell’umanesimo del lavoro di Giovanni Gentile. Anche sul tema della programmazione economica Fanfani si spenderà molto, mettendo in pratica da ministro interessanti politiche che favorirono lo sviluppo sociale e il miracolo economico degli anni ’50.
Ancora, l’articolo 39, che sancisce il riconoscimento giuridico dei sindacati (mai realmente applicato) e l’importanza dei contratti collettivi validi erga omnes, furono altri elementi valorizzati dall’autore de “Le origini dello Spirito capitalistico in Italia”. Nel dibattito costituente relativo a quell’articolo, Fanfani protestò contro il diritto di sciopero previsto per legge, riprendendo in questo la prassi fascista che aveva dichiarato illegali sia la serrata che lo sciopero. «Se lo Stato ammette lo sciopero, riconosce la sua incapacità a tutelare la giustizia nei confronti dei lavoratori. Ma questa ammissione non può essere fatta in Costituzione», disse per giustificare la sua posizione, che si richiamava in larga parte a impostazioni corporative. Infine, dove in maniera forte si ravvisò una continuità con il passato fu nel caso dell’articolo 46 sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, promosso con convinzione da Fanfani tra gli elogi ma anche le critiche di diversi padri costituenti, come Taviani. Anche quest’ultimo era un dirigente Dc che negli anni ’30 aveva sposato in pieno le ragioni del fascismo, da lui apprezzato in particolare quale argine alla “barbarie materialista” del comunismo. Come già sottolineato, ben pochi intellettuali non avevano appoggiato la “terza via” tra le due guerre: un economista cattolico di primo piano come Jacopo Mazzei, vicino a Fanfani, inneggiò ad un «totalitarismo corporativo» su scala europea che inaugurasse una vera e propria rivoluzione sociale.
L’art. 46 riconobbe il diritto dei lavoratori a «collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» e ancora in una delle sue ultime opere, nel 1976, Fanfani rilanciò i temi della partecipazione del superamento di capitalismo e comunismo scrivendo Capitalismo, Socialità, Partecipazione, e rimanendo in contatto con “corporativisti” con cui aveva condiviso esperienze tra le due guerre, Ernesto Massi per primo. In definitiva, la ripubblicazione de “Le origini dello spirito capitalistico” ci porta dritti dentro una lunga storia da riscoprire, per capire le complessità della storia e conoscere meglio gli uomini che, con tutte le loro luci e ombre, hanno costruito la nostra nazione.
Ho semp.re pensato che la Costituzione della Repubblica Italiana, presentata stucchevolmente come “nata dalla Resistenza”, in realtà sia stata elaborata da una classe politica che aveva largamente collaborato con l’esperimento corporativo. Cassese ha colto perfettamente tale continuità (basti pensare alle limitazioni al diritto di proprietà, al riconoscimento giuridico dei sindacati), ma non è stato il solo. Il Cnel è una Camera dei Fasci e delle Corporazioni liofilizzata, e infatti non ha mai funzionato, limitandosi a essere una sinecura per sindacalisti prepensionati, ma L’Iri è rimasto, come del resto l’Agip di Enrico Mattei.
Quanto a Fanfani, penso che il politico abbia avuto colpe e meriti. Pilotò o comunque trasse giovamento dallo scandalo Montesi, per far fuori un onesto esponente della vecchia guardia popolare come Piccioni, volle il centrosinistra liquidando Tambroni, e questo fu un suo torto. Ricordo ancora i manifesti del partito liberale alle politiche del 1963, le prime che abbia seguito a dieci anni con interesse: Per un Fanfani senza domani, per un domani senza Fanfani. Però all’epoca del sessantotto e dell’autunno caldo ebbe il coraggio di denunciare la crisi dell’Italia, “nave senza nocchiero in gran tempesta”, con quel che segue, e dopo il referendum sul divorzio e la sconfitta alle comunali del 1975 pagò di persona.
Come ministro della Pubblica Istruzione, ebbe un’alta stima della classe docente: alzò i compensi e diminuì il numero di alunni per classe. E, a differenza di Aldo Moro, soprannominato “il dottor Divago” per le sue ermetiche tortuosità, parlò sempre chiaro. Come statista, ebbe sempre alto il senso dello Stato: quando il titolare del Pignone, che aveva chiuso l’azienda fiorentina gettando sul lastrico le maestranze, si rifiutò di recarsi a un’audizione perchè doveva presenziare a una mostra dei suoi dipinti all’estero, gli fece ritirare il passaporto; ma al tempo stesso minacciò di fare arrestare il sindaco di Firenze La Pira, che si era recato a Messa nel Pignone occupato.
All’epoca esisteva ancora il senso dello Stato, e con esso lo Stato.