“L’estrema civiltà toglie al delitto la sua spaventosa poesia e non permette allo scrittore di restituirgliela. Sarebbe troppo ributtante, rappresentato tal quale! Protestano i pusillanimi che vorrebbero tutto abbellire, anche l’orrendo. Vantaggi della filantropia! Dei criminalisti imbecilli diminuiscono la pena e dei moralisti inetti la colpa; e, ancora, non diminuiscono la colpa che per ridurre la pena.”
Le diaboliche, Jules Amédée Barbey d’Aurevilly.
Lo scrittore Lucien Rebatet (1903-1972) sorprendentemente riemerso dalle tenebre, fu tra gli esponenti più convinti e radicali del cosiddetto collaborazionismo francese, anche se il suo nome risulta all’oggi, particolarmente in Italia, meno conosciuto rispetto ad altri “maledetti” filotedeschi. Un eterogeneo microcosmo intellettuale quello dei reprobi collabos, fatto di idealistici romantici, ruffiani e arrivisti, subdoli delatori, stravaganti dandies, esteti reazionari e provocatori con la penna intinta nel fiele; claque estemporanea, tacciata dall’infamante accusa di tradimento della Patria per aver sostenuto lo Stato di Vichy del maresciallo Pétain o direttamente gli occupanti germanici a Parigi: tutti proscritti, braccati da gollisti e comunisti subito dopo la sconfitta della Germania. Pensiamo principalmente all’esule apocalittico Louis-Ferdinand Céline, cipiglioso autore del Viaggio al termine della notte – un classico della letteratura moderna, imprescindibile capolavoro d’invenzione stilistica – e di altri memorabili scritti, pamphlet compresi, nei quali l’argot dei reietti si fa Parola musicata, ritmo tamburellante, borbottio, invettiva, balletto sarcastico, solfeggio mefitico, esplosione di bile. Pensiamo al suicida per troppo stile Pierre Drieu La Rochelle, dandy illuso e disilluso, volitivo e tuttavia decadentista, contraddittoria vittima del tormento esistenziale, esattamente come il protagonista del suo libro più noto (trasposto anche assai bene su pellicola da Louis Malle), Fuoco fatuo. Pensiamo pure al condannato a morte Robert Brasillach, il quale pagò per tutti con la vita l’adesione al fascismo, al suo romanzo sperimentale I sette colori, titolo che ci riporta all’oggi e all’omonima casa editrice responsabile della coraggiosa riscoperta di Rebatet.
Indubbiamente occorre arditezza per proporre, in questo nostro tempo paciosamente sprofondato in luccicanti paludi conformistiche, un autore di tal fatta: fascista convinto e mai pentito, sulfureo ammiratore di Nietzsche, fine musicofilo devoto a Wagner, anticristiano e conseguentemente antisemita (o forse viceversa?), fiero oppositore del comunismo e della democrazia, ma soprattutto caparbiamente avverso alla decadente flatulenza borghese della Terza Repubblica; fu tra l’altro autore del più violento, nonché venduto durante l’occupazione nazista di Parigi, testo antigiudaico, il famigerato Les decombres (Le macerie). L’editore Denoël, che lo pubblicò, venne assassinato dopo la liberazione, mentre l’autore fu spicciamente condannato a morte. Similmente al furioso Céline dei libelli antisemiti, Rebatet mise del folle genio in quell’opera intrisa di rancore, si direbbe la perfidia dello stile, seppure in maniera opposta alla catarrosa santabarbara del dottor Destouches, privilegiando da par suo un registro formalmente elegante, elitario ai limiti dello snobismo, pur galleggiando in una latrina di bassezze:
“C’est dans la merde que poussent les plus belles fleurs”.
Qui solitamente casca l’asino ideologico progressista, sempre attanagliato dalla moralistica domanda obbligatoria dall’esito pregiudizievole: Può uno scrittore eccellere nella forma, seppure in una prospettiva valoriale, etica o politica, più o meno arbitrariamente e a posteriori definita esecrabile? L’avvocatura ai ceppi di Sade, gli effluvi allucinanti di Lautréamont, le sarabande d’eclissi di Baudelaire e Rimbaud, la vita criminale di Genet o di Sachs, l’osceno dispendio di Bataille, giungono provvidenzialmente in soccorso al reietto, sopravvissuto e poi amnistiato, Lucien Rebatet.
La risposta difatti è sì, giacché nelle arti la forma stilistica inghiotte il contenuto, ne fagocita la morale, buona o meno che sia, trasformandola in altro, in bellezza? In orrore? In epica? e sta tutta dentro le meravigliose 1300 pagine de I due stendardi, nella brillante traduzione di Marco Settimini, con introduzione a d’uopo di Stenio Solinas. Per rassicurare progressisti censori e moderati facilmente scandalizzabili, si dirà che nel libro non v’è traccia alcuna di fascismo, anzi emerge paradossalmente un afflato libertario, individualismo sovente anticlericale, cucito addosso ad un protagonista affatto intruppato e dai gusti difficili, troppo raffinati per scadere in politica. Trattasi di romanzo-mondo, per usare un’espressione abusata, solitamente riservata alla Recherche du temp perdu. Tant’è che Marcel Proust, più volte citato nei due tomi, c’entra eccome: di primo acchito esteticamente, grazie alla musicalità delle minuziose descrizioni, nella capacità di creare scenografie viventi, atmosfere e luoghi “visibili” al lettore; più profondamente nel proposito di fondare una conflittuale mitologia del tempo – la grande ossessione francese per la gioventù perduta, per l’innocenza corrotta, tutto ciò che di bello e puro mai più tornerà: magari in favore di qualche venerea perversione mondana – imbastita col cesello del dettaglio concatenante e retta sulle mastodontiche colonne di due templi archetipali: cristianesimo e paganesimo, polarità metafisiche calate potentemente nel romanzo, suggestioni aleggianti in una contrapposizione umana fatta di visioni del mondo radicalmente opposte. Ad esempio, Brouilly, collina dei vigneti Beaujolais, può essere qui il corrispettivo della Balbec (e della Madeleine, ça va sans dire) proustiana, il luogo dove Rebatet colloca l’arbitraria sacralità dei fatti a venire, la fondazione di un sodalizio fra tre ventenni, due maschi e una bella pulzella. A differenza di Proust però, matematicamente stratificato su lacerti borghesi e di nobiltà decadute, inarrivabile nella sua lenta, prolissa quanto inesorabilmente velenosa, processione di fatti persone luoghi finzioni, Les Deux Étendards varca risolutamente la soglia della modernità, piegando la lingua “alta” del grande romanzo ottocentesco (Stendhal soprattutto) all’ecclettismo delle febbri drogate, alla vivace poetica “proletaria” delle avanguardie del secolo seguente. La prosa, elegantemente adagiata su una serie di cambi ritmici ben armonizzati, saldata in emblematiche ambivalenze, tutelari riguardo al grande disegno narrativo e ad un titolo così evocativo, passa fluidamente da erudite disquisizioni teologiche e filosofiche a sordide, quantunque eccitanti, derive gergali, fluttuando attraverso registri linguistici assai variegati; la storia fa la spola tra l’effervescente fermento parigino anni ‘20, tra surrealismo e Dadà, e bucoliche scampagnate nella provincia francese più profonda, conferendo all’insieme la vivacità necessaria; il ritmo incalzante mutuato da Céline, certo, ma riadattato ad una sinfonia raffinatissima, zeppa di seducenti arguzie e intensi momenti d’introspezione. Scrittura meno viscerale e terragna rispetto al Voyage, si direbbe più vasta, malleabile, subliminale, propedeutica a mantenere sottotraccia il duello rituale tra sacro e profano; gradualmente, pagina dopo pagina, s’apre una bomboniera, Pandora piena di viscere e idealizzazioni, slanci e malinconie, monache e puttane, affaristi e monsignori, miserie e splendori, disciplina e anarchia. Proust e Céline, dunque, gli estremi opposti messi in carrozza nello stesso libro: davvero curioso questo approdo bipolare di Rebatet, che si fa uroboro – nella nostalgia latente della Belle époque per tutt’e tre – posto a sigillo dell’intera opera.
Col piglio degno di maestri di stile quali Montherlant, Huysmans e Gide, l’autore posa sapientemente sulla scacchiera i bianchi e i neri, prendendo a pretesto un passo degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio da Loyola:
“Meditazione dei due stendardi, l’uno di Cristo, sommo capitano e Signore nostro, l’altro di Lucifero, mortale nemico della natura umana”.
Il romanzo, scritto in carcere nel dopoguerra, avrebbe dovuto intitolarsi Ni Dieu ni Diable e difatti odora di zolfo tanto quanto d’incenso. Ebbene, quello che da più parti, quantomeno nelle sinossi divulgative, è stato definito il racconto di un triangolo amoroso – la vicenda di due giovani amici legati da un patto di mutuo arricchimento spirituale, eleganti e avidi di bellezza, diversamente innamorati della stessa ragazza – può essere banale sintesi della vicenda, così come specchietto per le allodole. Piuttosto vengono alla mente certi film di realismo poetico della Nouvelle Vague, alcune suggestioni estetizzanti palesemente prese in prestito dal cinema di Truffaut o di Rohmer. Se la trama del romanzo fila via setosa, inebriante sulle montagne russe, si srotola armoniosamente nel codice apparentemente romantico – il cliché duellistico dei rivali in amore – l’ordito increspato d’introspettive turbe ficca in profondità i suoi paletti, punteggiando cinicamente un disegno nichilista ben più complesso, o meglio sottile: l’ineluttabilità dell’inganno, fiele celato in un corpo letterario fatto di panna montata e champagne, così come di sterco e fetore.
Il processo di disfacimento dell’idilliaca triangolazione, della mitologica fratellanza d’amore, quale esito delle crescenti tensioni tra l’aspirante gesuita Régis e il vitalista paganeggiante Michel, conduce direttamente agli abissi del romanzo. L’illusione riflessa sullo specchio dei desideri amorosi, iconografia della bella giovinetta divenuta Femmina (pia quasi monaca e quindi astutamente libertina), così attigua eppure inarrivabile, voluta ardentemente e poi miracolosamente ottenuta a discapito di tutto e tutti, a danno perfino della devozionale voglia di lei, Anne-Marie, covata da Michel per centinaia di tormentate pagine. La sfinge seducente, enigma dell’eterno femminino. Ossessione protratta senza risparmio, sovente ridotta al patetismo, contro il tempo avverso e l’amicizia, fra sospetti incrociati di tradimento, quindi deformata e corrotta fino alla consunzione, fino all’epilogo annichilente: amara fine della giovinezza, la disfatta del sodalizio tra cornacchie pretesche e miseri contratti borghesi da eludere, accuse rimpianti recriminazioni, disinganno concomitante all’apogeo del piacere – quando la meccanica del sesso sostituisce la proiezione idealizzante, che fare? Pregare forse, ma Michel rifiuta l’inginocchiatoio così come il confessionale. Subentra così lo sfebbrare del desiderio appagato, sublimi fantasmagorie dissolte nel lezzo di qualche vizio dozzinale. Si legga a tal proposito, quasi all’epilogo, il meraviglioso quanto cinico capitolo intitolato Racconto di Guitte al suo amante miliardario, qualcosa che riecheggia vagamente il monologo alieno di Molly Bloom dell’Ulisse, laddove Rebatet sposta crudelmente l’angolo di osservazione, sulla fine della passione della giovane coppia in favore del mondo adulto, mostrandoci attraverso il pragmatismo risolutore della sorella maggiore (di Anne-Marie) tutto il ridicolo patetismo degli amori puri, ingenuo sperpero d’ardore da addomesticare velocemente in un matrimonio d’etichetta, tragedia di cuori sanguinanti da mutuare risolutamente in farsa adolescenziale, tanto per ripristinare ipocritamente una rispettabilità sociale. Effetto domino, l’impalcatura dei due gonfaloni ormai ammainati crolla, s’affloscia, con esito destabilizzante per il lettore, coinvolto fin lì nel tormentato gioco di rinunce e passioni.
Sebbene contenga svariati passaggi di cristallina bellezza, I due stendardi è romanzo amaro, anzi amarognolo e al contempo dolciastro come certi aperitivi francesi, torbido resoconto di una tenzone senza vincitori, lunghissimo spartito musicato sulle velleità d’assoluto, vette crolli abissi ambizioni folgorazioni e apoteosi, aristocratico prologo d’addii prima che s’apra il sipario di qualche forma di resa relativista, di normalizzazione borghese o di genuflessione al cospetto dell’inscalfibile potere della tradizione cattolica: i convitati di pietra dell’intera vicenda. L’eroe tragico Michel Croz, dandy ventenne, individualista nonché alter ego dell’autore, bramoso di letteratura musica e arte per impastare d’ebbrezza dionisiaca la vita, al di là delle triangolazioni relazionali e dei doppi contrapposti, è il vero protagonista del libro, colui sul quale ricade il fardello della sconfitta più drammatica; pegno da pagare per aver preferito una femmina al “fare di sé un capolavoro”, come avrebbe sostenuto il suo filosofo prediletto.
Paga il fatto d’essersi innamorato di Anne-Marie l’intoccabile madonnina promessa a Dio, legata misticamente in un casto platonismo monasteriale all’amico Régis, paga con una condotta istintiva, sconclusionata, sebbene fascinosamente bohemien, il desiderio frustrato, fino a lambire l’indigenza nei sordidi gironi della prostituzione e nei bassifondi della malavita; paga anche quando ottiene illecitamente le risorse economiche necessarie per tentare la grande conquista: certi agi ritrovati e vestiti sartoriali su misura gli permetteranno di dissipare i patemi morali, infonderanno la sicurezza necessaria al ragazzo per rivelare ad Anne-Marie il suo a lungo taciuto sentimento, traendola finalmente a sé; eppure, nonostante l’appassionata corrispondenza tra i due, nonostante la fiammata fulgida di Eros nell’alcova pagana, quel fuoco si rivelerà artificiosamente appiccato ad un ammasso di carta bagnata: d’acqua santa? Cala su tutto un sipario di falsità. Eclissatasi Anne-Marie, consumata dai fantasmi del passato, dal senso di colpa cristiano o forse soltanto propensa ad altre civetterie femminili, toccherà ai due vecchi amici, vessilliferi rivali, mettere in scena l’ultimo atto, resa dei conti o già simulazione retorica in un teatro di provincia ormai vuoto, che prenderà forma nello scontro dialettico tra il gesuita conciliante ma mellifluo Régis e l’oltranzista agnostico Michel.
Nell’incompatibilità conclamata fra i due, nel rifiuto del compromesso e dell’ipocrita segno di pace da parte Michel, altro non resterà che deglutire il calice amaro di rancore e disprezzo, attraverso l’assassinio della memoria; tutto il resto, l’intera atmosfera del libro, rimarrà in qualche modo vincolato alla corruzione circostante, alle brighe di qualche potere occulto quanto volgarmente superiore: le ricche famiglie borghesi, la chiesa, il sordido mondo degli adulti e degli affaristi. Macerie, per l’appunto, che Rebatet ha saputo raccontare meravigliosamente, come una moderna fiaba epica, come un magniloquente dramma per eterni romantici.
*Da Rivista Arthos