Di Mario Carli molto abbiamo scritto e molto potremmo continuare a scrivere. Complice l’interesse che l’intellettuale armato sta giustamente riconquistando, non è un mistero che svariate intuizioni espresse da questo irregolare del Novecento configurino canali interpretativi utili a detronizzare i dogmi e le ipocrisie imperanti nella realtà odierna. Svirilizzazione qualunquistica, atassia ideale, ibridismi diffusi, convenzionalismi servili e devoti a talune inclinazioni globaliste e livellatrici: l’ardito futurista che insieme a D’Annunzio e Mussolini sognò la rivoluzione nazionale contrastò, irriducibilmente, tutte le mollezze le quali avrebbero potuto anche solo rallentare il flusso trasformatore cui l’Italia doveva attingere per la fondazione dello Stato nuovo. È facile allora comprendere il motivo di tanta attualità riscoperta nelle sue opere; avanguardista, esteta e soldato, implacabile fustigatore di ogni genere di conformismo, Carli si oppose con un secolo d’anticipo ai soloni benpensanti, ai cicisbei parrucconi che oggi infestano i salotti “buoni” dell’alta società.
Una bonifica radicale
È appunto sull’onda di queste pulsioni che Carli, uomo di penna e di spada, avrebbe imperniato la memorabile spedizione antisnobista – confluita nel volume Antisnobismo del 1929, ora meritoriamente riproposto da Aspis Edizioni – atta a demolire i bacilli tossici insinuatisi tra i club e i raduni della sua epoca; era circa il 1927 quando, sulle colonne de L’Impero (diretto da lui ed Emilio Settimelli) e di Brillante, l’indocile capitano degli arditi battezzò la polemica contro la mondanità degenere e avariata, contro la fauna stereotipata che corrompeva i luoghi del divertimento e dello svago. Nelle righe declinanti tale temperie, non pare faticoso cogliere una vera e propria battaglia di costume, di atteggiamento, di mentalità; come già indicato nel primo episodio dedicato al Nostro, per Carli il fascismo doveva infatti trasfigurare il sistema mondano sul modello dell’italiano nuovo: doveva, in sostanza, plasmare tramite la sua dinamicità quegli spazi ricreativi che normalmente rispondono alla fisiologica necessità di rigenerazione fisica e spirituale. In un simile contesto, secondo le estrinseche volontà e le citate traiettorie, Carli avrebbe assunto senza troppi tentennamenti la posizione di mussoliniano intransigente, di sentinella granitica e guardinga, comunque insofferente agli organi del regime che seguitavano a palesare congenite venature liberali e borghesi.
Ma la sollevazione antisnobista di Carli non approvava l’abolizione o la repressione dei ritrovi mondani. Viceversa, lungi dal sottovalutare il ruolo delle adunanze, bisognava piuttosto recuperare i circuiti ristorativi per dare loro una forma maggiormente aderente alle esigenze dei tempi. “Non quindi con senso di terrore e di sospetto dobbiamo affrontare i problemi dello spettacolo”, sosteneva, “ma con senso di forza, il che vuol dire che si scarta semplicemente, energicamente il male dovunque si annida; ma non si sopprime la materia in cui questo male si è annidato, e che, così purgata, può avere la sua funzione sociale ed artistica, notevolissima”.
Costruire cantando
Sarebbe un equivoco ripercorrere la serrata disamina di Carli con la lente del puritanesimo bigotto, anchilosato; un equivoco infelice e peraltro non dovuto, considerato che lo stesso capitano degli arditi ebbe la premura di evidenziare l’estraneità della sua campagna rispetto a certa cialtroneria pedantesca: al contrario, urgeva coltivare l’attitudine a una sana e genuina allegrezza, distante anni luce tanto dalla musoneria grigia e sfiduciata quanto dall’edonismo frenetico e disinibito. “Di fatto”, insisteva Carli, riproponendo altresì lo stile tipicamente affine alle vocazioni dell’ardito-futurista, “si delinea sempre più il contrasto tra due spiriti italiani: lo spirito passatista, che tiene a ricordarci ogni momento di esser noi gente antichissima, millenaria, solenne, barbuta, saputa, vissuta; e lo spinto avvenirista che vorrebbe travolgere tutto ciò in una fresca risata obliosa di scugnizzo. C’è un giusto mezzo tra i due estremi. C’è il modo di ricordare e venerare, pur radendosi la barba e senza accigliate serietà; come c’è pure il modo di sfogare tutti gl’impeti della giovinezza più acrobatica, danzando, cantando, saltando e volando, senza forzare la linea di eleganza che ci è imposta da una tradizione gloriosa”; per poi concludere: “Altro è ‘fare sul serio’, altro è ‘fare le persone serie’”.
Al bando lo snob
L’autore auspicava dunque che nei saloni del mondo elegante irrompesse una folata di vita ripristinata, che fossero i giovani forgiati tra le trincee di Vittorio Veneto a depurare, con la loro freschezza e la loro vigoria, quell’atmosfera putrefatta, disfattista; in particolare, il capitano degli arditi ne deprecava la massificazione strisciante, gli omologanti canoni comportamentali, l’insensata esterofilia satura di francesismi e inglesismi mal scopiazzati, il pullulare di luoghi comuni e di mode artefatte. E così, fedele al ritmo delle richiamate percosse, Carli avrebbe subito puntato i fucili verso lo snob smidollato, l’eunuco di regime allergico agli appelli della storia ed esclusivamente assorbito nella frivolezza del sollazzo più indolente. Si trattava del “plebeo arricchito, ovvero il borghese arrivista, che per farsi credere un aristocratico esagera in tutto, calca le tinte, sostituisce lo sfarzo al buon gusto, si allontana dalla semplicità e dalla sobrietà”, doti essenziali del “vero signore”. O, ancora, l’offensiva non mancava di riferirsi al nobile slombato, incurante di una onorevole funzione cetuale, infettato dai veleni della voluttà e del peggiore scetticismo morale.
La donna è donna (e meno male!)
In aggiunta, Carli neppure lesinava aspri improperi nei confronti delle tracimanti propensioni a una bizzarra “smascolinizzazione”, associata all’inezia, al languore in cui si crogiolavano i damerini da salotto. Ciò lo avrebbe portato a screditare gli effetti della preponderante influenza femminile nei circoli della mondanità, dove le signore “modellano a propria immagine e somiglianza tutto ciò che ha contatto con loro: pienamente dominati, i loro uomini si riducono a quei perfetti molluschi rifiniti e scremati che formano la delizia dei luoghi alla moda”. Inevitabilmente, avrebbe sottolineato dopo, “se la donna fosse virago, tenderebbe a modellare uomini virili; ma per fortuna la donna è donna, e allora gli uomini che essa plasma sul proprio stampo, divengon dolci e ‘carini’, leccati e laccati, soffici e ciondolanti come lei”. Da mandare in tilt, insomma, le stravaganti paranoie neofemministe e le “teorie di genere” varie…
Italianizzare
Oltre alle conseguenze dell’influsso femmineo, il capitano degli arditi segnalava la manifesta sudditanza che il “gran mondo” nutriva per gli scenari stranieri. Ai radical chic del suo periodo, lo scrittore rimproverava la mania sintetica dell’importazione; deplorava l’impiego ostentato e ingiustificato di cliché internazionali degradanti le usanze nostrane al rango di sgradevoli intrusi. Considerando l’idioma il pilastro ancestrale della dignità di un popolo, incriminava la “fatuità del parlar mondano che mescola con la più gommacea morbidità alle parole di un italiano problematico infinite locuzioni di altre lingue”, in quanto “non è spregevole chi conosce delle lingue, ma lo è certamente chi le adopera senza ragione, a sproposito, rinnegando la propria”. Occorreva quindi italianizzare, avrebbe ribadito Carli. Italianizzarsi nel parlare, nell’agire; farsi orgogliosi vessilliferi dei tratti e della fisionomia della propria eredità comunitaria. Il che non significa limitarsi al perimetro di un ingombrante sciovinismo; significa invece riconoscere la pluralità delle dimensioni locali evitando di obbedire supinamente ai codici mondialisti e cosmopoliti, nemici di qualsiasi frontiera, di qualsiasi tradizione. Propositi, questi, che conservano chiaramente una straordinaria e intatta vigenza, se constatiamo come, nella modernità, discorrere di patriottismo o identità sia divenuto oramai una nefandezza, ritenuto un oltraggio primitivo dai tribunali della doxa dominante.
In tal senso, il lavoro di Mario Carli andrebbe davvero considerato un fruttuoso manuale di resistenza al declino cui siamo costretti a rapportarci. Ossigeno nel pantano soffocante del politicamente corretto.
Buon mio predecessore a Porto Alegre…
Il problema era che D’Annunzio era un borghese massone, uno snob, un amante del superfluo..anche se col gusto di épater les bourgeois…