Si può uccidere per difendere il congiuntivo? La risposta contenuta nel libro di Massimo Roscia non è banale. Come non lo è il suo noir grammaticale. Un romanzo curioso, affascinante, folle, ironico, erudito, paradossale, travolgente. Perla rara nel panorama amplissimo e terribilmente piatto della letteratura italiana attuale.
“Mi incammino verso la banca in fondo alla piazza. Ripenso ancora una volta al mio nuovo nome. Asclepiade. Asclepiade di Mirlea. Suona bene. Non mi dispiace affatto. Ripenso alla nuova missione. Le mie non sono più azioni episodiche e solitarie, ma fanno parte di un grande disegno condiviso. Combattere gli errori, l’ignoranza dilagante e l’inesorabile scadimento lessicale, ripristinare la ricchezza e la varietà della lingua, difenderne l’integrità e celebrarne definitivamente la bellezza. Già. Una bellezza – direbbe William Shakespeare – che val più di tutti i regni di questo mondo”. (La strage dei congiuntivi, pagina 203)
Non è dunque solo un problema di congiuntivi. Il vilipendio quotidiano di una delle lingue più belle e complesse del mondo, si trasforma in un attentato alla bellezza. Più il linguaggio si semplifica, più si diffonde una non-lingua che uccide non tanto la grammatica e la sintassi, quanto l’anima stessa di un popolo. E la sua capacità di pensare, oltre che di evolvere.
E così gli strambi, nevrotici, ma eruditissimi cinque protagonisti del romanzo di Roscia, assunti i nomi di battaglia di antichi e celebri grammatici del mondo classico, s’incaricano di una missione titanica. Colpire fisicamente e violentemente i massacratori della lingua italiana.
S’inizia – e come potrebbe essere altrimenti – da un assessore alla cultura, ribattezzato Gross Donkey. Costui non si limita a ignorare l’uso dei congiuntivi e a sbagliare clamorosamente le citazioni (attribuendo il cogito ergo sum cartesiano ad un proverbio greco) di fronte a platee di decerebrati clientes adulanti. No, l’assessore alla cultura è una sorta di insaziabile leviatano che si nutre dell’ignoranza trasformandola in potere. Per cui è giusto che muoia. Non prima di essere stato insultato con tre pagine (3) di aggettivi che vanno da abbindolatore a zoticone, in rigoroso ordine alfabetico. Poi si passa alle randellate. Ma non con un bastone qualsiasi. Con una verga d’olivo, l’albero sacro ad Atena, la dea della sapienza. Colpirne uno per educarne cento.
L’azione diventa di gruppo e assume le caratteristiche di una vera e propria caccia all’uomo. E alla donna. Ad esempio una giornalista che per ben quattro volte, nei suoi articoli di cronaca, scrive un’omicidio con l’apostrofo. Sarà opportunamente strangolata.
C’è poi il caso, ben più complesso, di un parroco che nelle sue omelie definisce la grammatica come un frutto del demonio. Non c’è bisogno di regole, dice, è sufficiente parlare con il cuore. Dimenticando forse che se in principio era il Verbo, poi venne anche il Congiuntivo. Opportunamente coniugato.
Come dovrebbe essere nel finale, quando un altro prete si avvicina ad uno dei grammatici-assassini in punto di morte e volendo somministrargli l’estrema unzione, scivola anche lui, in extremis, su un congiuntivo. “Può Dio perdonarti!”. “Possa, padre, possa”, gli risponde Dionisio amaramente, riecheggiando quasi il finale monicelliano di “Amici miei”, con la confessione supercazzola del Perozzi.
“La strage dei congiuntivi”, dunque, oltre ad essere un libro divertente è una storia di fedeltà alla grammatica e alla lingua italiana. Perché, per dirla con Moretti, chi parla male pensa male e vive male. E chi non conosce le regole della grammatica, probabilmente non riesce a capire neanche le regole della vita. E la loro bellezza.
* La strage dei congiuntivi, di Massimo Roscia, Exorma edizioni, 2014