Il 28 febbraio si è svolta a Milano una delle conferenze tolkieniane più importanti dell’anno, con la partecipazione di Gianfranco de Turris, principale studioso di letteratura fantastica in Italia, assieme ad Andrea Scarabelli, direttore della rivista Antares, il cui numero monografico su Tolkien è scaricabile dal sito della stessa. L’incontro è stato moderato da Guido Giraudo.
Partendo dall’origine delle opere tolkieniane, idee elaborate “nel terriccio della mente” durante la Seconda Guerra Mondiale, da uno studioso di linguaggi antichi e lui stesso creatore di lingue “elfiche”, l’incontro si è spostato poi sull’analisi dell’opera, principalmente il Signore degli Anelli, con vari richiami al Silmarillion.
Il successo che ha riscosso il filologo di Oxford si estende nel tempo e nello spazio, essendo le sue opere apprezzate anche da culture non occidentali nell’arco dei decenni, da diverse generazioni. L’avventura di Frodo, Sam e della Compagnia dell’Anello è stata letta in tutto il pianeta perché espleta le quattro funzioni del mito definite da Joseph Campbell (mistica, cosmologica, culturale e iniziatica) e risponde a un desiderio di sacro che è insito nella natura umana.
Inizialmente l’uomo ha risposto a questo senso del sacro tramite le mitologie, che non sono semplici storie epiche, ma vere rappresentazioni di un mondo in cui l’uomo ha un rapporto con gli Dei o con un Dio, verso il quale tendere. Successivamente ci sono stati i poemi medievali, le canzoni di gesta, confluiti ancora successivamente nella fiaba, la quale poi è confluita a sua volta nel romanzo fantastico. Il successo della letteratura fantastica è da ricercare anche in questo desiderio che l’uomo nell’epoca moderna non riesce più a soddisfare, mentre fino al Medioevo, in un mondo ancora tradizionale, l’uomo viveva immerso in una realtà in cui tutto era sacro e simbolico, così come è tutto sacro e simbolico nella Terra di Mezzo di Tolkien. Nel Signore degli Anelli non si parla di una religione esteriore o di riti sacri, non perché tutti gli abitanti siano atei, ma perché vivono una realtà in cui è ben presente il senso superiore delle cose.
La modernità invece è il dominio della materia e dunque anche la concezione del potere da essa incarnata è deteriorata e negativa. Nel Signore degli Anelli il potere è concepito in due modi. Il potere da restaurare, quello di Aragorn, che racchiude in sé un’idea imperiale benevola e positiva per tutti i popoli ad essa sottoposti, contrapposta all’idea del potere di Mordor, che rappresenta la moderna civiltà delle macchine, in cui tutto è uniformato verso il basso. A Mordor il colore dominante è il grigio, freddo e oscuro, così come ad Isengard, dopo il tradimento di Saruman, il paesaggio sembra quello di una fabbrica dell’800, con fumi venefici che escono dal sottosuolo e operai disumanizzati e quasi schiavizzati. Saruman con le sue “catene di montaggio” o gli esperimenti sugli Urukhai, molto simili ad esperimenti genetici, è fautore delle tecnologie mortali delle guerre che dominavano la prima metà del ‘900. Analogo è l’operato dell’Oscuro Signore nella Terra Nera, dove il ricordo del passato, e della rurale bellezza della Contea contrapposta al grigiore della fredda Mordor, aiuterà il Portatore dell’Anello nella sua scalata al Monte Fato.Il potere rappresentato da Mordor e dall’Anello è individuale ed egoistico, mentre quello di Aragorn è comunitario e aperto. L’Anello e la Voce di Saruman cercano di irretire gli individui singolarmente, mai in gruppo, in quanto non riescono a concepire che qualcuno possa riconoscersi in un gruppo o in una comunità, in quanto per loro esiste solo l’Io, inteso come dio di sé stesso. Questo potere rompe la sacralità della Terra di Mezzo e infatti ne distrugge fisicamente le bellezze, ne spiana la foresta più antica, quella di Fangorn, provocando la discesa in campo dei guardiani della foresta, gli Ent, ascrivibili a una classe di sommi sacerdoti che cercano di riportare l’ordine attaccato dal tradimento assurdo e violento.
Tradimento che utilizza la scienza e la tecnica in modo scomposto e dissacrante e che simboleggia un progresso che a Tolkien non andava a genio, perché troppo lontano dall’idea di progresso che può avere un uomo della Tradizione come egli era. Il progresso non deve essere una distruzione di tutto ciò che sta intorno, non può essere chiamato progresso qualcosa che lascia dietro di sé solo macerie fumanti.
A tutto questo però pone fine il Ritorno del Re, che riporta la pace nella Terra di Mezzo, dopo il percorso, che potremmo definire iniziatico, di Aragorn. Tutto il viaggio della Compagnia è un’iniziazione, un superamento della propria condizione da parte di ogni componente, anche dello stesso Gandalf, che si ritrova dall’essere il Grigio ad essere il Bianco. Aragorn è un ramingo, un nomade che alla fine diventa Re, restaurando un antico potere che gli apparteneva ma non aveva e doveva riconquistare. Di natura molto diversa invece il viaggio di Frodo, che rompe il tradizionale schema del racconto fantastico. Il Portatore dell’Anello, diventato tale da semplice Hobbit, non deve conquistare nulla, ma disfarsi di qualcosa. Questa è una grande novità, soprattutto perché il protagonista paradossalmente ha già in mano il potere, ma non lo vuole e lo deve distruggere, perché il potere malvagio. Per fare questo deve superare il percorso più duro di tutti, perché deve lottare contro sé stesso e tutte le insidie postegli di fronte dall’Unico. Riesce però a vincerle tutte, grazie al fatto che già in partenza per decidere di disfarsene deve fare forza su sé stesso e abbandonare tutti i pensieri e le pulsioni negative. In ciò è aiutato dal fidato Sam, un semplice giardiniere dall’animo semplice, che non cade nelle grinfie dell’Anello proprio per la propria semplicità.Il Signore degli Anelli dunque, oltre alla storia meravigliosa, è portatore di una serie di significati che ad oggi certa critica cerca di eliminare, provando a far passare l’idea che sia una storia fine a sé stessa.
Chiaramente non è così e il lettore accorto lo sa già da un pezzo.